mercoledì 24 dicembre 2008

Post natalizio o ad sexum pertinens

Non è da escludersi che il lettore più avventato veda nel titolo che non mi sono peritato di dare al presente post il superficiale quanto triviale tentativo di svilire i sacri valori custoditi dalla festa del Natale con il loro accostamento a qualcosa di ritenuto impuro; tuttavia si vedrà presto quanto questo giudizio sia ingeneroso prima di tutto verso il prudente autore cui fate l'onore di leggere le sue povere riflessioni e poi anche verso la vostra intelligenza (non so perchè ma così è).
Mi spiego. Così come il Natale celebra l'incontro dell'Essere con il Divenire, la sessualità, nel modo in cui cercheremo di intenderla qui, vuole permettere l'incontro dell'Essere con il Divenire. Naturalmente, se preliminarmente si è voluto tirare in gioco l'analogia di fondo di questo duplice incontro, adesso si dovrà pur proiettare sotto la più chiara luce il fatto fondamentale, ancora una volta duplice: mentre nella mangiatoia alla periferia dell'Impero è l'Essere che irrompe nel Divenire sottoponendolo ad una piegatura e financo spezzandolo definitivamente in due, nel dominio della sessualità il Divenire imprime il proprio carattere all'Essere, operazione che, va da sè, non può tuttavia avere un carattere definitivo, storico e tanto meno eterno. Ma ciò agli spiriti autenticamente filosofici, credo, basterà e donerà ogni gioia umanamente possibile.
Entriamo nel merito della questione. Oggi si fa tanto vanto nei paesi occidentali di un'ampia diffusione della libertà sessuale. Niente di più efficace per continuare a tenere sotto controllo i sani spiriti animali dell'uomo, che piuttosto vengono stornati per essere impiegati sui campi di battaglia, nella feroce concorrenza economica e nell'eterno agone per il successo sociale. La struttura patriarcale, fondata, in Occidente, sulla monogamia, permane pressocchè immutata; l'elevazione dell'adulterio a pratica quasi legittima non comporta un serio spostamento dei termini della questione; tutt'al più funge da sintomo. Analogamente, l'anarchia sessuale delle giovani generazioni non rende la nostra specie più intelligente e, nutriamo il più che solido sospetto, neanche meno infelice. Probabilmente l'effetto maggiormente degno di nota di tali comportamenti che si autodefiniscono "liberi" è solo lo slegamento della passione fisica dal sentimento. Un nuovo idealismo da una parte, un pernicioso dualismo dall'altra, animano questa novella ma già stanca umanità: il corpo e i suoi affari non sono faccende per il supposto spirito e i suoi sentimenti. Niente va contro il più superficiale commercio dei corpi e il contemporaneo adolescenziale desiderio di incontrare l'amore eterno e come in ogni buon dualismo che si rispetti, a difesa dell'impianto teoretico e della morale che gli conferisce significato e utilità, va cercata la buon vecchia ghiandola pineale. Facile oggi a trovarsi: il modello televisivo-cinematografico che le due parti eterogenee tiene insieme e la cui ardita composizione giustifica e incentiva. E lo stesso idealismo fa la sua parte: a dispetto di un'apparenza che vorrebbe far assumere alla carnalità del rapporto sempre maggiore normalità, oggi il corpo è visto come qualcosa di distante e quasi da non toccare. All'uscita da una discoteca o durante una festa non ci si conosce, non si conosce il corpo dell'altro e pur dandosi al sesso non si dà la benchè minima intenzione di conoscerlo. Gli occhi del partner rimangono ignoti, così come le mani che frugano curiose ma in preda al più terribile timore: il corpo appare tutto nei genitali; è lì solo che si mostra, spesso senza neanche concedersi all'occhio: si fa idea più che cosa.
Ma se affermiamo che questo modello di esistenza non funziona, non possiamo forse tentare di trovarne un altro? Perchè degli aristocratici dell'esistenza non prendono in mano la loro vita e, invece che limitare le gioie che provengono dalla sessualità o, su un fronte opposto e quindi speculare, disintegrarle in azioni che ne sviliscono il valore, non dimostrano che è possibile moltiplicare quelle occasioni di piacere, gaudio e seppur momentanea felicità? Non è forse possibile arricchire la propria altrimenti spesso infelice esistenza dedicandosi senza posa a relazioni amorose con più donne, con più uomini e perfino con più esponenti dei due sessi qualora il proprio istinto lo suggerisca? Intendiamo dire, non sarebbe legittimo e tecnicamente possibile per questa aristocrazia dell'esistenza amare più simili sulla base di un amore ogni volta diverso come ogn'ora sempre diversamente foggiata dal Divenire è la nostra presunta individualità? Non sarebbe allora il nostro io finalmente più libero di offrirsi alla necessità? A quella necessità dell'istinto che non ammette rigide limitazioni se non al prezzo di una perdita di vigore psichico? Quale scandalo costituirebbe tutto questo? Non viene forse predicata da millenni una dottrina dell'amore universale? Non dovrebbe ingenerare maggior scandolo questa piuttosto che quella di un amore tra più persone ma pur sempre tra meno che tra l'universalità tutta di questa nostra sciagurata stirpe? Allora forse a quei pochi fortunati l'amplessso non sarebbe più concesso per una consuetudine del fine settimana o della noia coniugale; l'abbraccio tra due umani non costituirebbe più qualcosa di simile a quanto si verifica tra due pugili che si cingono con le braccia per evitare i colpi dell'avversario: assumerebbe la forma di un avvicinamento autentico, foss'anche timido e prudente, tra due forme di vita che vogliono sfuggire al dolore, alla noia e al non senso; i presunti amanti avrebbero meno da temere dall'altro perchè l'amore perderebbe buona parte del proprio carattere di campo di battaglia in cui conquidere un'anima in maniera esclusiva e anche definitiva, benchè spesso si abbia la vaga consapevolezza che si tratti della definitività del momento, che pur sempre definitività è. Sottrarre all'amore il suo carattere egoistico: ecco la debolezza della nostra umile proposta che quasi cede il campo alla stolida utopia. Tentare ed esplorare nuovi territori, però, non è iniziativa da scartare. Non pretendere il cosmo dall'amato segnerebbe il primo passo, vederlo nell'insieme di tali auspicate molteplici relazioni amorose costituirebbe il secondo. La fissità dell'esistenza lascerebbe il posto ad un ritmo musicale sempre vario; la monoliticità della vita si scioglierebbe nella levità di un continuo fluire che non risparmia neanche un presunto e surrettizio io osservativo e che si dà la pena di cercare il godimento. In un gioco di specchi quegli aristocratici potrebbero cercare di vedere se stessi nella loro essenza più vera: il loro corpo, che è il corpo degli altri che amano e da cui sono riamati.

domenica 7 dicembre 2008

Post di denuncia

Il presente è un post su richiesta che ha come scopo quello di dar voce ad un mio amico, tal Giuseppe, che ha subito una bella quanto prevedibile ingiustizia. Come ho scritto qualche tempo fa, non c'è di che fidarsi della maggior parte di coloro che indossano una divisa e che vengono lautamente pagati per occuparsi della nostra sicurezza e della legalità. Leggete un po' che cosa mi ha raccontato il mio amico, che, nonostante si sia laureato da poco in filosofia e a pieni voti, si era degnato di fare l'onore all'Arma dei carabinieri di tentare di essere accolto come allievo maresciallo. Superato l'esame a quiz con un punteggio elevato e superate tanto le prove fisiche quanto quelle psicologiche col massimo del punteggio non senza avere perfino affrontato con successo delle prove supplementari, si è tuttavia visto estromesso dal concorso con l'odioso pretesto di avere una degenerazione vitro-retinica in un occhio. Per inciso, i medici della commissione hanno potuto verificare che Giuseppe ha dieci decimi di vista e se lui non avesse riferito loro di un intervento subito una decina di anni fa non si sarebbero accorti di nulla. Anzi, per dir meglio, l'oculista che lo ha esaminato non è riuscito ad accertare nessuna degenerazione. Peraltro il mio amico non ha alcuna degenerazione visto che l'intervento che ha subito era solo di carattere preventivo: quindi si può dire che non ha e non ha mai avuto alcuna degenerazione. Naturalmente lui non sa che cosa gli hanno fatto firmare dopo la visita oculistica non potendo vedere a causa dell'atropina ma prima di firmare gli era stato assicurato che era tutto a posto. Eppure poi è stato dichiarato inidoneo proprio per questa presunta e insussistente degenerazione vitro-retinica. Questo non fa che rendermi ancora più certo del livello dei mezzucci che vengono utilizzati in questi ambienti per raggiungere i propri scopi.
Ma non mancate di leggere anche quest'altra piccola ma ancora più grottesca esperienza patita da un altro candidato al medesimo concorso: un tale provava per il terzo anno consecutivo ad essere scelto e fatte le visite mediche si è visto scartato perchè secondo i parametri fissati è risultato due centimetri più basso del dovuto. Al che l'infelice si è visto costretto ad esclamare: "ma come è possibile? Due anni fa e l'anno scorso ero alto 166 cm e quest'anno 164. Come lo si spiega?" L'inteligentissima risposta dell'ufficiale è stata, pare dopo un uniziale momento di imbarazzo, che il candidato nell'ultimo anno si era ingobbito di due centimetri.
Andando al sodo per chi non lo avesse ancora capito, tanto il mio amico quanto quest'altro povero disgraziato non dovevano essere selezionati perchè non erano raccomandati. Del resto il mio amico era stato messo più volte in guardia anche da un ex-ufficiale dei carabinieri che peraltro, visto l'ambiente in cui si trovava, aveva deciso bene di cambiare mestiere. Non importa quanto vali ma da chi sei raccomandato, un po' come funziona all'università e in quasi tutti gli altri settori della nostra società. Non importa se sei sovrappeso o se sei ignorante come una capra come quel Piersilvio D'Agora di cui vi raccontavo in un precedente post, che una volta ebbe il coraggio di rispondere alla mia domanda su che cosa significava la parola che lui mi stava leggendo della querela diretta contro di me che quella parola (ben inteso: quella parola scritta sotto dettatura di un avvocato da un intelletto degno quanto quello del Piersilvio e appertenente ad ul collega di quest'ultimo in realtà non esisteva; chissà che cosa aveva dettato quell'avvocato!) significava "questo e quello", non dicendo in effetti nulla di sensato e anzi, incalzato dalla ripetizione della mia domanda, come uno scolaretto ignorantello mi disse che (facciamo finta) "derato" vuol dire "derato", non potendo ammettere che non ne conosceva il significato. Ma bisogna concedergli le attenuanti, quel termine non esisteva ed egli, in qualche maniera, pagava la colpa di un suo collega altrattanto indotto. Ma riflettendoci su che bel disastro: un'ignoranza al quadrato. Naturalmente, ad un certo segno del nostro botta e risposta ho dovuto cedere perchè l'eroico carbiniere minacciò di sbattermi a calci fuori dalla "sua" stanza. Tanto asinino per cultura quanto per condotta.
Concludo riferendovi le impressioni del mio amico sui giorni che ha trascorso in caserma per il concorso e che credo di poter dire confermino integralmente le mie teorie sulla psicologia dei corpi di polizia. Ufficiali, sottoufficiali e idioti semplici facevano di tutto per far sentire i candidati delle nullità e per far loro capire che dovevano obbedire senza neanche pensarci su. Naturalmente se in una stanza c'era un maresciallo in assenza di un ufficiale, il primo si sentiva un dio senza misericordia, ma se solo la stessa persona si trovava in presenza di un suo superiore diventava un cagnolino senza libera deliberazione. Ogni comando e richiamo ai candidati era imposto al solo scopo di far capire che lì dentro il sottoposto deve solo obbedire e deporre ogni volontà autonoma, certo in cambio, trattandosi di futuri marescialli, di esercitare un analogo dispotico potere sui propri futuri sottoposti.
Che cosa dedurne? Forse che la formazione dei cadetti, in questi ambienti, genera idioti cui non serve il cervello perchè c'è sempre un superiore di cui seguire le direttive o perfino degli psicopatici? Come si potrebbero definire altrimenti degli uomini che esercitano un potere non limitato dal'esercizio di un pensiero critico nei confronti degli uni mentre spesso godono nella sottomissione al superiore? Allora non sorprenda che appena anche un carabiniere o poliziotto del grado di carriera più basso ne ha la possibilità abusi del proprio potere con il cittadino inerme.

domenica 30 novembre 2008

Gli spettatroci o del narcisismo umano

Profondamente scosso e finanche offeso nella mia dignità di uomo, mi trovo costretto ad offrirvi delle riflessioni che di primo acchito vi sembreranno indegne della più recente produzione di questo pur sempre misero blog. Sì, misero, ma non come l'umanità che mi appresto a descrivervi con impavido coraggio e indomito disprezzo. L'origine del mio attuale sconforto è da ricercarsi tutta intera nell'amara necessità, che mi ha costretto ad assistere alla seduta di laurea di mio fratello. Solito triste e squallido copione: parenti in trepidante attesa del genio di turno che finge a bella posta per loro di aver percorso una splendida carriera universitaria e di essere amico intimo del proprio relatore, cui spesso, con un audace colpo di mano, riesce ad estorcere una foto a perpetua memoria dell'unico giorno di gloria della propria vita. E sì, l'unico per tanti che si vedranno costretti all'inedia e a fantozziane quanto orrende umiliazioni lavorative e non solo. Tuttavia quel giorno è un tripudiare di fiori, di sorrisi, di studiate gentilezze: l'illusione prevale su tutto e la patina di falsità è salva. Si pensi all'odiosa passerella di vacche, per l'aspetto, tanto prodigiose da essere al contempo capre, per l'ignoranza, che incedono talune sicure nelle loro calzature dal tacco alto quanto è bassa la loro levatura culturale, talaltre un po' malferme per via degli stessi trampoli ,talatre ancora anche un po' rafferme. Naturalmente si potrebbe a lungo disquisire delle scarpe che vengono esibite dalla quasi totalità delle donne in occasione delle lauree e in similia, ma ci soffermeremo qui solo sul punto decisivo lasciando spazio ad un'unica fondamentale domanda cui peraltro non ci daremo pena di trovare una risposta (ecco la bellezza dell'autentico pensiero): quale è il ti estin che rende un paio di ciabatte delle calzature che presumono di essere eleganti? Ma non lasciamoci sviare nelle nostre riflessioni da sì pur feconde questioni e muoviamo verso la valutazione etologica, prima degli esemplari femminili, per una mera questione di compiuto ordine argomentativo, poi di quelli maschili, lasciando per ultime le considerazioni sui subumani. Ordunque, chi può dichiarare di non essersi mai avveduto, non senza veder nascere dentro di sè un moto di benevola indignazione, dell'astuto tentativo di certe matrone e delle loro perfide figlie di simulare intelligenza, finezza e compostezza dei modi e di dissimulare la più crassa ignoranza e l'incontenibile desiderio di togliersi le scarpe o di camminare come solgono fare a casa quando in loro prevale il più genuino elemento fisiologico e coprono quindi con piede celerrimo i metri che le separano dalla cucina alla toilet? Audire le loro voci ripaga con giusta moneta gli stolti che ne ammirano gli abitini succinti da cui esondano le forme maggiormente eccedenti: è allora che si assiste ad un concerto di inflessioni dialettali tra le più cacofoniche, solo allora, per generoso contrasto con una falsa apparenza di grazia del porsi e dell'abbigliarsi, si avverte in tutta la sua pienezza lo stridore, il gracchiare, lo starnazzare degli esemplari in oggetto. Inoltre, come trascurare l'attento vigilare di quelle mielose mammine a che nessuno le veda mentre minacciano di morte o di prometeici supplizi i loro pargoli, che già mostrano di sapere come devono crescere per emulare degnamente padri e madri? La finzione è tutto. Non la maschera purtroppo, che in pochi hanno il coraggio di mettersi davanti.
Passiamo alla parte dell'umanità che si crogiola nel definirsi virile. L'insieme dei moduli comportamentali dei soggetti che ne fanno parte ruota tutto intorno ad un asse centrale: quell'inappagabile desiderio di dare respiro alle pance oppresse dentro stretti quanto eleganti calzoni tenuti su a protezione della verecondia universale da spietate cinture. A niente valgono le occhiataccie delle mogli; il desiderio va appagato mediante lievi e non privi di una certa grazia colpetti al cinturone ad intevalli di tempo di non più di una dozzina di minuti cadauno. La bonaria trivialità di simile umanità già abbrutita prima di entrare nelle varie facoltà da una lotta senza quartiere per l'accaparramento di uno spazio per la propria auto lucidata per l'occasione (lotta che denuncia, per le modalità in cui ha luogo e per i fini che nobilmente si propone, l'universale presenza in questi individui di una forte tendenza alla territorialità; dato biologico di non secondaria importanza) viene mitigata da una rassegnata indulgenza nei confronti delle proditorie azioni dei figli contro amici, parenti e sconosciuti.
Adesso qualche parola di benevolenza nei confronti dei lauerandi. Dicevamo dei loro tentativi di ingannare i parenti ma non si ometta di osservare che ingannano pure loro stessi, tanto sono mediocri. Pusillanimi ad ogni esame, lì, di fronte ad una commissione che in verità non deve valutarli, ostentano sicurezza. Ignobile a vedersi quanto quasi ciò che ho visto in occasione della seduta di laurea di mio fratello: ognuno dei candidati si avvaleva della proiezione di lucidi sulla lavagna luminosa e quando questa d'un tratto non funzionò più è partito l'applauso degli spettatori. Mai termine fu usato con maggior rigore: la gente che lì sedeva ma che lì avrebbe meritato di essere crocifissa credeva di essere in tv e via con l'applauso di incoraggiamento. A chi? Al candidato? Alla lavagna luminosa? Non ci è dato sapere; forse lo sapranno i posteri quando avranno studiato la psicologia dello spettatore di una remota quanto barbara epoca dominata in ogni sua espressione culturale dalle modalità televise. E permettemi di non tralasciare di raccontarvi che in quella stessa occasione ho assistito ai ringraziamenti più televisivi e al contempo da mendicante che abbia mai sentito: una candidata ha osato tributare i propri ringraziamenti, in un'escalation di miseria, al proprio relatore, alla commissione tutta (poco ci mancava si toccassero vertici oratori da comizio elettorale o da festa patronale), ai propri parenti e agli amici. Inaudito.
Quasi alla fine (ma per la verità alcuni di voi sanno che quando scrivo i miei post so quando inizio ma non so dove sta l'epilogo) mantengo la mia promessa e già solo per questo sono più affidabile di un politico qualunque: vi parlo degli esemplari subumani. La quasi totalità delle forme biologiche che sussistono sulle sedie dietro il tavolo della commissione valutatrice non raggiunge lo stadio zoologico e si ferma al muschio o al licheno anche se è onesto rilevare che i prodotti di taluni dipartimenti sono per consolidata consuetudine evolutiva fermi al protozoo. Lasciatevi ingannare dalle apparenze, che sono tutto: non solo non sono superiori per cultura, figuriamoci per intelligenza, alla media degli spettatori ma, una volta fatto venire meno il sistema rituale della seduta di laurea, o in alternativa dell'esame, perdono consistenza, si liquefanno e i meno consistenti evaporano. Talvolta sento dire a qualche ingenuo studente che stanno al gioco e conferiscono un'apparenza di dignità alla seduta di laurea per una sorta di benevolenza nei confronti dei laureandi. Non è così: fanno il gioco perchè loro, al di fuori di esso, non consistono.
Qualche breve riflessione la concediamo pure all'ultima categoria, l'unica cui la Verità si dischiude generosa e senza pudore e l'unica capace di farsi grasse risate in queste occasioni. Ai suoi membri è stato attribuito il nome di spettatroci, la cui etimologia viene così spiegata: si trattarebbe di spettatori ma, distinguendosi essi per la Conoscenza, per lo spirito lindo e l'arguzia della battuta, il loro nome assume il suffisso "atroci", connesso, come certamente non sfuggirà ai più provati filologi e linguisti tra i miei lettori, con l'atrocità tipica di un'autentica conoscenza, di uno spirito puro e capace di ridere in maniera non spontanea. Lo spettatroce ride del candidato, della commissione tutta e dei parenti senza eccezione alcuna. Sa ridere anche di se stesso qualora abbia la sventura di trovarsi in una di queste categorie e sa spogliare di ogni significato la laurea in ognuno dei suoi elementi. Di conseguenza non veste mai elegante, neanche per la propria laurea. Ragion per cui, sospetto che tra autore del presente post e lettori più o meno fedeli, come dire... Nel novero di questi, l'unico autentico e compiuto spettatroce sarà il sottoscritto.
Dirà adesso il lettore: "banalità!". "No!, stolidi intelletti!", risponderà l'Autore, "evidenze". E ciò metta debitamente a tacere ogni obiezione!

venerdì 21 novembre 2008

Gunnar Heinsohn

Mi permetto di segnalare ai lettori che non ne fossero ancora a conoscenza che mi sono provato in una recensione su un libro di uno studioso tedesco che cerca di spiegare l'origine dei tumulti sociali, delle guerre e del terrorismo non sulla base dell'azione delle ideologie ma sulla scorta di quanto evidenziato dalle dinamiche demografiche. Per quanto attiene allo scenario politico odierno, ad esempio, viene individuato in un eccesso di figli maschi in molti paesi di religione islamica la ragione decisiva per il sorgere, in quelle nazioni, del terrorismo, trascurando e riducendo a semplice acceleratore di secondaria importanza la diffusione, in esse, dell'estremismo religioso.
Questa povera fatica ha trovato più che degna accoglienza in Sitosophia, il sito degli studenti di filosofia di Catania: Recensione a “Söhne und Weltmacht”.

venerdì 31 ottobre 2008

Il silenzio dei sapienti

Propongo qui al lettore delle considerazioni, che malgrado la loro evidente banalità, cionondimeno non riescono a guadagnare il consenso di larga parte degli uomini. Poeti e pensatori hanno versato fiumi di inchiostro sul valore della vita e sulla felicità di cui all'uomo è concesso di godere e talvolta si è pure giunti a vedere quale grande acquisto è per l'uomo venire al mondo. Il vedere la luce in preda al pianto, evento che riguarda tutti, ha suggerito per esempio l'opportunità di leggere in esso il segno di una necessaria infelicità nel destino dell'uomo. Tuttavia ritengo che non è indispensabile fare appello agli inizi per identificare la natura dell'esistenza; molto di più può, o meglio, potrebbe dichiarare l'esperienza di chi la vita non la deve ancora vivere, bensì la vive già o l'ha già quasi interemente lasciata alle proprie spalle. Se solo si concedesse parola ai sofferenti, agli infelici che penano per ogni sorta di inimicizia stretta con loro da parte della natura e degli uomini suoi terribili figli! Il problema sta proprio qui: quanti sono coloro che hanno conseguito una conoscenza adeguata della vita e della sua ferocia che hanno la forza morale e la salute per esprimere il loro odio per essa? Davvero pochi e quando osano svelare l'arcano i sani, additando qui con tale termine anche il presunto vigore dell'intelletto che giammai per loro deve farsi consigliare dal quotidiano soffrire, pena la perdita della sana oggettività, vengono deliberatamente ignorati o compatiti per la loro sorte, che si vuole considerare individuale nella persona e limitata per circostanza nello spazio e nel tempo. La ragione del risentimento provato dai sani e dai felici nei confronti di chi sente, pena e perciò pensa e che solo di rado può essere celato dalle cure amorevoli prestate nei loro confronti risiede tutta qui.
E con la profusione del risentimento dei vigorosi il seme dell'infelicità può continuare ad essere sparso con generosità su questa amara terra. Quell'atto che si vuole d'amore, trova nel suo contrario il suo principale movente; il desiderio di potenza espresso dalla filiazione non è che una maschera ed una reazione a quel sentimento di colui che è risentito. Ma non contenti di una sola maschera, gli uomini ne aggiungono di altre e di più belle.

venerdì 17 ottobre 2008

Sulla gerarchia

Prendendo vago spunto da un qualche punto del non misero blog di una conoscente (www.ossidia.it), mi provo come autore di invettive contro coloro che, vili, abusano della loro posizione nella gerarchia per sopraffare il prossimo. Naturalmente, non si fraintenda, l'elemento gerarchico è indispensabile o quanto meno assai utile all'interno delle più svariate specie animali, compresa quella più sciagurata di tutte, in quanto la più incompleta e meno evoluta, affinchè i singoli membri di esse non si sbranino a vicenda, tuttavia si vuol qui dar conto della perniciosità di talune sue espressioni. Fedeli ad un taglio estremistico e si spera anche radicale del presente blog, si prenderà in considerazione soprattutto una delle forme più primitive della gerarchizzazione, trascurando a bella posta quelle che sono venute fuori da un'elaborazione lunga e prodigiosa da parte della nostra bella civiltà: la gerarchia nei corpi armati.
Sono poche le occasioni in cui meglio che non in seno ad un esercito ci si può avvedere della brutalità degli uomini che occupano una qualche posizione in una gerarchia. Tale brutalità è seconda solo al grado di miserabilità che contrassegna chi, superiore al sottoposto, gonfia il petto e dispone della vita dei suoi uomini come di una collezione di farfalle ma al contempo, sottoposto nei confronti dei propri superiori, cede con supina quando non con compiaciuta rassegnazione alle loro angherie. Poste simili condizioni, mi si conceda l'inciso, non può sorpendere che gli eserciti costituiscano delle macchine da stupro: godere della sottomissione dell'inerme, in questo caso, è ben più importante che soddisfare un bisogno fisiologico a lungo insoddisfatto e se poi si verifica quella terribile condizione in cui al senso di onnipotenza dello stupratore si congiunge il compiacimento di aver obbedito ad un ordine del proprio superiore quell'arma di stupro di massa che è l'esercito diviene inarrestabile, come dimostrato in Bosnia. Con ciò si è solo voluto dare un esempio di quanto nell'uomo la malvagità e l'assenza di ogni riguardo nei confronti dei propri simili possa esprimersi a partire da due direttrici apparentemente opposte, vale a dire sadismo e masochismo, per convergere subito verso un unico abisso di abiezione.
Prendendo invece in considerazione il regime nazista e le sue fiere che si nascondevano dietro le sembianze di omuncoli, non deve sfuggire che esso era un apparato militare cotruito per tempi eccezionali non certo di pace. La stessa struttura del partito era militarizzata in ogni ordine della sua gerarchia e sappiamo con certezza che coloro che ordinavano e facevano uccidere senza pietà gli avversari e gli oppositori erano degli imbelli agnellini al cospetto di un proprio capo. Mirabile potenza del Führerprinzip! Lo stesso Göring, secondo della gerarchia fino a pochi giorni prima della caduta degli idoli, ebbe a dichiarare che quando si entrava nella stanza di Hitler se ne poteva poi uscire, se solo il capo lo voleva, con la convinzione di essere una ballerina. Taluni di questi uomini che credevano di essere stati forgiati per comandare una stirpe eletta ma che non potevano fare a meno di obbedire furono capaci di non sconfessare la propria natura sino alla fine, come confermato tristemente da quell'episodio che potrebbe assurgere a chiusura simbolica di un'epoca: l'avvelenamento dei figli da parte dei coniugi Goebbels. Il ministro, che non intendeva vivere in un mondo non dominato dal proprio capo, coerentemente non volle rinunciare neppure a esercitare il proprio potere di vita e di morte sui figli: ancora una volta il duplice polo del comando, subito e imposto, che si condensa in un'unica posizione della gerarchia, ha mostrato la sua potenza.
Al nobile scopo di non tediare ulteriormente il lettore mi limito a proporre quest'appendice che segue, la quale, al di là delle profonde riflessioni che l'hanno preceduta e che dovevano servire come specchietto per le allodole, ha il compito di far riflettere anche colui che ripone la maggior fiducia nei confronti di quei particolari corpi armati che sono le sedicenti forze dell'ordine. I cronisti, con nostra somma fortuna, si degnano ancora di riportare notizie riguardo ai soprusi perpretati in nome o dietro una divisa ma io, cedendo alle più meschine tentazioni autobiografiche, vi faccio dono della conoscenza di alcuni orrendi misfatti che io stesso in persona ho avuto la ventura di subire qualche anno fa. Ecco i fatti, il cui racconto il resoconto che segue non ha la pretesa di esaurire: trovatomi a difendermi per via legale e recatomi allegramente nella caserma del mio natio borgo selvaggio, piuttosto che essere accolto con garbo e cordialità, mi ritrovo giocosamente deriso e in verità non per la prima volta. Ciò che tuttavia mi induce a riportare proprio questo episodio della mia saga e non altri è però la natura tragica del mio contendente, il quale non era colui da cui ricevetti minacce e carezze a calci e pugni, come sarebbe stato lecito attendersi, bensì, miei candidi lettori, colui che avrebbe dovuto opporre la propria virile autorità ad una cotale irriguardosa condotta nei miei confronti. Il tale in questione era proprio un bel carabiniere, poco più brutto di quelli che si vedono nelle serie televisive finanziate dal ministero della Difesa o dell'Interno e poco meno arguto. Nella scala gerarchica neoplatonica dell'Arma presiedeva e tuttora degnamente presiede il livello dei brigadieri (ma tra un po' correggerò un'inesatezza). Quando costui dovette arrendersi all'infelice evidenza che non avevo alcuna intenzione di ridere delle sue prese in giro o in alternativa di andarmene chiedendo scusa di non aver accettato calci e pugni come un vero siciliano sa fare e io, per la verità, venni in soccorso della sua intelligenza rendendo palesi le mie intenzioni con un "io non ho dimenticato che lei è amico di un certo Antonigno Cucurucucù (un altro tale che voleva picchiarmi e che in quella caserma era stato difeso come accennerò poi brevemente) e se continua con questo comportamento sarò costretto a presentarmi al comando di Catania", ebbi in risposta di stare attento a quello che facevo perchè lui era Piersilvio D'Agora, brigadiere scelto della Repubblica italiana. Quel che conta è che l'esemplare in oggetto proferì il tutto all'apparenza tronfio di sè ma ad un'attenta osservazione percorso da un tremore che tradiva un gran timore. In quell'occasione il vostro eroe fu capace di dar vita, nello stesso luogo (un'inelegante stanza per carabinieri), nello stesso momento e financo nello stesso individuo, vale a dire il Piersilvio di turno, ad un'epifania di sadomasochismo: quell'uomo tanto forte era anche tanto debole e tenero da doversi giustificare facendomi vedere il codice penale e da tacere riverente allorquando gli è stato obiettato che non vi era alcun reato che mi si potesse ascrivere. Ma ancor di più, ad esser seri, conta il fatto che per poco il D'Agora, oltre al dichiararsi brigadiere scelto (ecco la precisazione promessa) della Repubblica italiana, si trattenne a stento dal rivelarmi che era anche vicecapocondomini con delega alle saracinesche, il che comunque solo per un soffio, a mia volta, mi trattenne dall'obiettargli che per me avrebbe fatto lo stesso se fosse stato tenente colonnello scartato della Repubblica democratica del Congo. Per raccontarla tutta, il vigoroso contendere si concluse solo con la presenza di un avvocato, che indusse il battagliero brigadiere scelto della Repubblica italiana ad operare una manovra di piegatura a non meno di sessanta gradi.
Altre appassionanti vicende si legano numerose a quell'episodio ma mi limito a raccontarne solo un'altra per dimostrare che tra le virtù dei carabinieri, non di tutti se è vero che cinquecentottantadue per quattrocentocinquntasei è uguale a duecentosessantacinquemilatrecentonovantatre, non vi è solo quella del coraggio impavido di fronte all'esposizione di fatti pur obiettivi che potrebbero inchiodare ad una condanna penale ma anche quella che rimanda al dono profetico. Ecco che cosa me lo fece capire: qualche giorno dopo che mi premurai di portare l'indirizzo di casa di quel famigerato Antonigno Cucurucucù ad un altro carabiniere, però stavolta di tutt'altro livello ontologico essendo egli un maresciallo di un qualche grado, che senza quella precisa indicazione si era detto, mentendo ma a fin di bene, che non poteva procedere nell'indagine, ricevetti in risposta da quest'altro splendido esemplare che non esisteva alcun Antonigno Cucurucucù. Ci si chiederà dove risiede la prova del dono profetico e io rispondo che sta nel fatto che di lì a qualche tempo il figlio tanto amato dalla mamma e dal papà sarebbe spirato perchè una malvagia pasticca buona per del sano divertimento avrebbe voluto rendere vani i tentativi dei cavalieri dall'uso spregiudicato dell'indicativo e cui sempre ignoto fu l'uso del congiuntivo di sottrarlo a un processo (per la galera, si sa, in Italia non c'è speranza).
Lascio ai lettori la morale della favola, che non sosta molto lontana dalla considerazione che vi posso irretire, fosse stata questa anche l'ultima volta, nella lettura di cose apperentemente interessanti per poi costringervi a conoscere le mie sciagure.

martedì 30 settembre 2008

Brevi considerazioni sulla miserabilità del siciliano

Nel titolo del post, "siciliano" potrebbe essere sostituito con "italiano" o "umano" in parecchie delle situazioni che mi accingo diligentemente a descrivere, se non altro perchè le tre parole prese in considerazione rimano alla stessa maniera e quale scellerato lettore oserà mettere in dubbio che il suono sia cosa marginale? Per cominciare cerco di prevenire eventuali critiche chiarendo che non voglio cadere in volgari generalizzazioni ma solo formulare dei giudizi universali e necessari e che non sottovaluto affatto l'importanza del popolo siciliano nella schiera di tutti quelli esistenti ma che piuttosto riesco a vedere in esso un ottimo specchio di tutte le principali virtù dell'uomo, capace proprio grazie al suo stupefacente effetto riflettente di rendere ancora più notevoli queste qualità.
Andando al sodo, come si fa a non rendersi conto di quanto l'uomo sia solo nella nostra società? Qualcuno, sicuramente tra i più stolti dei miei lettori, obietterà che presso di noi sopravvive ancora un qualche residuo di organicità sociale in grado di preservare gli individui dall'atomizzazione sociale attraverso gli istituti della famiglia, della Chiesa, della comunità paesana, ma come si fa a non vedere che proprio all'interno di esse l'individuo non è nulla? Coloro che all'interno di una famiglia aspirano a una qualche forma di libertà che non consista nel mero fregare tutti coloro che non appartengano alla propria famiglia vengono tacciati talvolta di stupidità, talatra di malvagità ed egoismo. Tutti accorrono per sopprimere il moto rivoltoso del povero infelice che reclama autonomia e dignità, con ancora maggiore ferocia se si tratta di una emancipazione spirituale e culturale. Anzi è bene sottolineare che proprio in questi casi, solo apparentemente meno drammatici, l'angusta perfidia delle donne di famiglia si avventa sul malcapitato cercando di farlo vergognare della propria presunta disumanità con appelli ai sacri disvalori dell'affetto materno, della pietà religiosa e della comune appartenenza ad un branco.
Dir male della Chiesa sarebbe come sparare sulla croce rossa e del resto confido nei già soddisfacenti livelli di empietà dei lettori, motivo per il quale non aggiungo altro. Della comunità paesana si può dire solo il peggio possibile: sei una brava persona solo se prevarichi oppure se in alternativa subisci senza clamore, altrimenti metti in imbarazzo gli imbelli tutti gli altri, che non hanno alcuna intenzione di sentirsi mediocri per il solo fatto di subire senza colpo ferire. Naturalmente tutto ciò che conta è adeguarsi al sentire comune, che è un sentire di pancia, talvolta anche di sfintere. A parole è un trionfo di solidarietà ma a conti fatti ti si offre solo omertà, vigliaccheria e quella spregevole forma di interessamento, la sola di cui i più sono capaci, che corrisponde alla curiosità pettegola quando non anche maldicente. Da una simile generalizzata condotta non può che nascere una universale reciproca diffidenza. La seguente mia teoria ha passato il vaglio dell'esame empirico: nessun uomo è più diffidente del siciliano, che, in fondo e in ammirevole spregio ai valori del legame madre-figlio, sa di non doversi fidare prima di tutto di colei che più di ogni altro è responsabile della sventura (perchè che si tratti di una svenura è chiaro a molti siciliani) dell'esser nati. Purtroppo è in uso una disdicevole forma di ipocrisia che induce a fingersi amici di tutti, ma a ben guardare si tratta solo di una maschera di difesa buona per tendere le migliori insidie al prossimo. Inoltre, quando il siciliano è di fronte a ciò che può essere considerato meno distante da un'amicizia fa valere un diritto cui non vuole mai rinunciare, ossia quello di pretendere di più dall'amico proprio in quanto amico, senza con questo, naturalmente, doversi sentire in dovere di concedere qualcosa in cambio. Ogni concessione è il preludio di una sconfitta perchè mostra una crepa nello scudo.
Quanto ai pii sentimenti religiosi del siciliano si può dire un gran bene: quasi nessuno crede in niente e ancor meno in Cristo, cui il siciliano è inimico in ogni sua espressione. Anche le forme più pagane di devozione religiosa sono solo l'evidente puntello alle vanità di mafiosetti del paese (anche quando si tratta di grandi città come Catania si tratta di centri con una mentalità e un'angustia morale tipica di un villaggio) e non hanno nulla a che fare con la tolleranza che si può attribuire al politeismo. Chi non ha mai assistito alle contese sul maggior valore di un santo rispetto ad un altro? Faccenducole per balordi di paese ma molto interessanti antropologicamente. Da tutto questo deriva comunque qualcosa che quasi induce a spezzare una lancia in favore dei siciliani: essi sembrano per un attimo pervenire ad una comprensione tragica della vita tipica di chi non crede a niente ma poi subito ricadono nella più ferina lotta per l'esitenza che esige che non si sprechino energie intellettuali per potere porre mano a faccende più concrete.
Ogni faccenda, seria o faceta che sia, viene affrontata con energia sì, quando se ne può ricavare un tornaconto, ma si è sempre alieni da un pur vago senso del dovere. Talvolta questo elemento viene nefastamente tenuto nascosto da ferme dichiarazioni in senso contrario e soprattutto dall'ostentazione di un forte senso dell'onore, che tuttavia, sarà ben chiaro a tutti, è ben altra cosa e cosa ben meno seria del senso del dovere.
Un breve cenno lo merita pure la leggendaria intelligenza dell'abitante dell'isola: nessuno può prendersi gioco di lui e soprattutto quando si trova al di là dello Stretto cerca di fregare il prossimo, perchè si sa, gli altri sono tutti ingenui. Ebbene sì, il siciliano è furbo: vende il proprio voto al primo balordo che glielo chiede in cambio di un pacco di pasta o peggio ancora in cambio di promesse impossibili da mantenere sull'assunzione del figlio, che otterrà sicuramente un posto consono alle proprie notevoli capacità. Perchè è noto, il figlio del siciliano è sempre intelligente, migliore degli altri figli anche quando è un aborto mancato e questo non fa che testimoniare quanto per il siciliano sia una cosa fondamentale la questione della potenza, della propria potenza espressa nel concepimento.
Infine, prima del pezzo forte che ognuno dei miei lettori sta attendendo, per ora non mi viene in mente altro da criticare dell'odiosa convinzione che ha il valore di un equivoco secondo cui si può vantare un sentimento solo se lo si esibisce senza verecondia alcuna, si tratti di gioia, amore, odio, disprezzo. Se un ragazzo crede di amare una ragazza deve cingerle il collo come si cinge uno scatolo di vecchi oggetti da portare in garage perchè tutti devono capire che è proprietà privata e la diretta interessata deve aver chiaro di essere un oggetto. Se si piange un morto (era tanto che in questo blog non vi si faceva cenno) si deve strillare anche se dopo due giorni si va alla festa del paese. Soprassediamo sulle espressioni di disprezzo, le quali riempiono tutto il profilo antropologico del siciliano.
Passiamo a cose più serie: la donna siciliana. E' un vero spettacolo assistere ad un litigio tra due donne siciliane. Tutto concorre affinchè esso assuma i contorni dell'ancestralità: le urla stridule quando non gracchianti, la vivace gestualità che talvolta culmina nello straparsi i capelli, l'irrefrenabile trivialità delle battute che si possono vedere scambiare, il crescendo wagneriano che vede accentuarsi la pugnacità delle contendenti fino al fatale frangente in cui si finge di aver sentito dire all'avversaria qualcosa che possa mettere in dubbio la propria virtù, il che, immancabilmente, conduce a tirare in ballo i mariti minacciandone la rappresaglia. Nessuna ritualizzazione del conflitto degli esemplari in oggetto può aver luogo perchè si tratta di animali privi di ogni inibizione e in totale balia di meccanismi scatenanti innati tesi alla distruzione morale, prima che fisica del nemico.
Tuttavia la donna siciliana è uno spettacolo anche al di fuori dei duelli con proprie pari e raggiunge dei vertici sublimi nelle seguenti circostanze: quando incede sicura tra i banconi della pescheria o del mercato chiedendo con fare da minaccia quale è il prezzo di un prodotto e dissimulando la propria volontà di acquistarlo all'unico e perfido scopo di ottenere uno sconto. E come trascurare ancora una volta sempre il suo incedere nelle giornate più calde, quando sfodera vestitini svolazzanti che purtroppo non lasciano molto all'immaginazione di chi ha in odio forme troppo ridondanti? Quell'incedere mai a gambe chiuse perchè il peso del corpo non è adeguatamente sostenuto dalla forza dei propri arti inferiori, che già la ragazzine possono sfoggiare quando ancora non sono troppo grasse (fino a due giorni prima del matrimonio o al massimo fino alla prima gravidanza) in sapiente preparazione alla propria vita da adulte. E come si può tollerare quella mancanza di gentilezza e di grazia sin dall'età adolescenziale, quella mancanza di disponibilità a meno che non si voglia qualcosa in cambio, quell'astuta simulazione dell'ottusità per poter convincere un idiota a servirle e a riverirle? Ma ciò che più di ogni altra cosa ferisce gli animi sensibili come me (che dico? come noi) è l'abbrutimento dell'espressione del volto anche in quei rari casi in cui si sarebbe in presenza di lineamenti non privi di una certa grazia, l'ostentazione di una presunta bellezza nell'elemento estetico più a buon mercato (nel senso che le siciliane, pingui per natura, fanno presto ad avere se solo si lasciano andare), ossia il seno grosso e grasso. Non deve salvarsi dalla ferocia di una critica seria neanche quel maledetto modo di fare che in talune ragazze, soprattutto i virgulti più teneri, vorrebbe presentarsi come assai affettuoso ma che si risolve in un mellifluo, eccessivo quando non anche parzialmente falso avvicinamento di una forma di vita che rimane però ineluttabilemente estranea.
Sperando che la lunga e avvincente lettura non abbia fatto registrare vittime sul campo o fraintendimenti di un qualche tipo (quando il lettore avrà dei dubbi su ciò che volevo dire pensi all'ipotesi peggiore e confidi così di aver capito) mi auguro che essa possa non solo convincervi del mio carattere spregevole ma soprattutto indurvi a dire: "quel tale ha fatto un'orrenda descrizione ma appunto perciò quanto vera!".

domenica 21 settembre 2008

Sul linguaggio

Si è a lungo discusso nella storia della cultura sul rapporto tra linguaggio e pensiero e talvolta assai fruttuosamente. Proviamo ora noi a dipanare l'intrico costituito da parola e concetto in maniera meno efficace. E' bene chiarirlo sin dall'inizio, si tratta di un groviglio in movimento, come tutto ciò che può vantare i caratteri di ciò che è vivo: l'attrito tra il termine e l'idea, tra il verbo e l'azione, la sostanza e il soggetto genera un cono di luce sulla faccenda del linguaggio che dà il pensiero e che al contempo da esso viene reso sensato. Un pensiero muto non viene dato e dei segni su un oggetto o una successione di suoni nell'aria non sono nulla. E' difficile stabilire che cosa possa vantare il primato su che cos'altro ma forse questo è affare per monoteisti che prestano il culto di fronte alle cause isolate e alle catene causali ad una sola direzione, a noi interessa maggiormente indicare l'intrico per sè. A questo scopo quale altra via si presenta come più sicura se non quella additata dalle fatiche della traduzione. E sì, il linguaggio umano mostra la propria vitalità nella molteplicità delle sue manifestazioni: tante lingue quanto e più sono i popoli ma sicuramente tante quanti sono i sentieri che conducono ai pensieri. Cercherò di diradare la goffa oscurità delle mie parole: come sa chi diligentemente cerca di rendere in una lingua diversa dall'originale un discorso, scritto o parlato che sia, assai di rado vi è corrispndenza perfetta tra un termine di una lingua e quello di un'altra. Permane spesso invece un residuo di intraducibilità, un esubero di pensiero e di idea. A ciò si aggiunga che anche quando, nell'essenziale, si è pervenuto nel corso dell'evoluzione del significato di una parola ad una sovrapposizione con lo spettro semantico di una parola di un'altra lingua ai più attenti non può sfuggire la loro duplice e differente storia da cui hanno ricevuto la forgia; storia che spesso, a dispetto di un uso volgare e sterilizzante del vocabolo, si ostina a sopravvivere nell'essenza stessa del suo significato, con buona pace dei dizionari.
Si presenta così come ancora più utile e opportuno per chi voglia conoscere meglio l'oggetto, con cui non si intende qui la superficie di ciò che ci si illude di vedere bensì il frutto nascosto e proibito che sta sotto quell'involucro, la fatica della traduzione, il laborioso confronto tra le parole che sembrerebbero indicare lo stesso concetto-cosa. Solo alla luce di questa continua messa a fuoco che si avvale anche dei contesti in cui sono collocate le parole ci si può avvicinare allo scopo non senza allontanarvisi svariate volte prima di un più deciso avvicinamento. Nel passaggio e distacco da una lingua all'altra, quando non ci si limita più a pensare in una sola, ci si può come staccare dallo strumento linguistico per corteggiare l'oggetto stesso. Le parole, nel loro avvicendarsi, si impegnano a circuire il concetto in un corteggiamento che sfinisce e che, come natura vuole, nella maggioranza dei casi si conclude apparentemente con un nulla di fatto.
Ma il lavoro della traduzione non è meno utile nel tentativo di comprendere il fatto che così come una lingua la si capice tutta intera e per così dire tutta in una volta e non per somma di elementi (si provi a fare l'esperimento anche cercando di ascoltare e quindi capire le parole di una frase detta nella propria lingua e si vedrà quanto sarà faticoso affidarsi per la comprensione di essa ad un'attenzione diretta alle singole parole e non alla globalità di quanto viene detto) alla stessa maniera si conosce tutta intera e come per intuizione immediata (la quale non per questo può fare a meno di un lungo percorso preliminare) la realtà che con la lingua si vuole esprimere: ogni oggetto è in relazione con gli altri e solo per l'imperfezione del mezzo , il nostro intelletto, sembra sfuggire a questa logica di relazione, o meglio correlazione. Non è possibile tradurre una parola di un testo se manca la frase; si dirà di più, il testo rimane muto senza contesto: quella parola è semplicemente priva di senso. Così come, del resto, l'oggetto e il concetto di esso isolati nella loro individualità non cantano la ricchezza della realtà e lasciano sostanzialmente inappagato l'intelletto che li pensa.

domenica 31 agosto 2008

Un modello di ritualizzazione dei conflitti

Si sono da poco conclusi i Giochi olimpici estivi, splendida occasione per coloro che bramano il vil denaro e per gli incensatori dell'orgoglio nazionale ad ogni latitudine. La storia umana, ciò si mostra con la più palese evidenza, è un susseguirsi di conflitti armati, i quali spesso hanno l'ultima parola perfino sull'attribuzione della primazia di una cultura sull'altra: anzi, proprio un discorso sull'avvicendarsi delle culture non è qui semplice orpello o futile divagazione tra l'armeggiare dei campi di battaglia, bensì centro di gravità della questione. Come ben spiegato dall'etologo viennese Eibl-Eibesfeldt, mentre gli altri mammiferi sarebbero stati muniti dalla natura di forti inibizione all'uccisione del conspecifico, l'uomo, il più lussureggiante tra i viventi, proprio per il rigoglio della sua vitalità, proprio per la vivacità delle sue virtù, che lo rende l'essere virtuale per eccellenza, avrebbe realizzato il suo sviluppo biologico all'insegna dell'aggiramento di quelle benefiche inibizioni: si sarebbe così lasciato il campo al sorgere di ciò che Eibl-Eibesfeldt ha definito pseudospeciazione culturale. La cultura come origine della guerra: quale sorpresa allora se le culture si combattono? Devono farlo per intrinseca natura. L'umanità, lacerata in culture, nei campi di battaglia si è fatta distinte umanità: i freni inibitori che nelle altre specie impediscono l'attacco del conspecifico non possono trovare spazio se a confrontarsi non sono gruppi di una stessa specie bensì specie diverse. La guerra appare per questa via una naturale lotta tra predatori e prede, come tante se ne possono osservare nel regno animale, anche se si deve mettere in evidenza che all'uomo riesce di andare oltre i più consueti spazi del biologico mettendo in scena anche scontri tra predatori da una parte e predatori dall'altra.
Ma i lettori si chiederanno perchè tutta questa dotta spiegazione; eccone di seguito il motivo. Se l'aggressività tra conspecifici presso gli altri animali sarebbe tenuta a freno e non condurrebbe alle stesse nefaste conseguenze è anche grazie alla cosiddetta ritualizzazione dello scontro, che comunque non infrequentemente ha luogo. Si può offrire in proposito il classico esempio del lupo che offre la carotide all'avversario per segnalargli che si dichiara sconfitto, azione che pone fine alla lotta prima che essa abbia conseguenze esiziali per il perdente. Per l'uomo questo non accade a livello di filtri biologici e anche dal punto di vista culturale si sono fatti molti passi avanti per un ulteriore approfondimento della spietatezza dell'aggressività intraspecifica con l'introduzione dell'uso di armi come l'amigdala o le freccie, fino ad arrivare alle armi da fuoco e quelle nucleari, che, ognuna ad un livello diverso, rendono più difficile il riconoscimento nell'avversario di una comune appartenenza alla stessa specie. Tuttavia, ciò che la stessa cultura ha originato e accentuato potrebbe anche mitigare con la creazione di un filtro culturale: venenum contra venenum. Venendo finalmente al contenuto richiamato nel titolo del post (sia il lettore sufficientemente mite dal non reagire bellicosamente all'insidia da me tesa nel mascheramento dell'oggetto del presente scritto! Dovevo agire così perchè egli non fosse scoraggiato alla lettura), una manifestazione come i Giochi olimpici non sarebbe nient'altro che un tentativo di ritualizzare i conflitti e non a caso si legge nei manuali di storia che essi, nell'antica Grecia, erano capaci anche di interromepre le guerre. Del resto non mancano in essi la lotta tra le nazioni, la volontà di prevalere e umiliare l'avversario, che non si ferma nel momento in cui è una prima volta soddisfatta ma che è fisiologicamente ulteriormente stimolata da una prima vittoria, la divina mania propria di ogni guerra, il ricorso a stratagemmi di ogni genere per il raggiungimento dell'obiettivo, il rinsaldamento dei vincoli all'interno dei popoli in lotta. E non si trascuri il seguente fatto, cioè che il carattere di ritualizzazione del conflitto sarebbe chiaro anche nella sempre più massiccia presenza di bambini nell'ambito delle cerimonie inaugurali e di chiusura di questi grandi eventi sportivi: presso molti popoli le ambasciate di guerra sono accompagnate da bambini, che dovrebbero mitigare l'aggressività dei contendenti.
Naturalmente, è quasi ozioso segnalarlo, l'efficacia di questa ritualizzazione dei conflitti è per lo meno dubbia. Se fosse vero che presso i Greci i giochi olimpici arrestavano le guerre, oggi si potrebbe dire che succede l'opposto: vi danno inizio.

sabato 9 agosto 2008

Ancora qualche parola sul corpo malato

Quale fondamentale particolare mi era sfuggito sulla malattia del corpo del nostro sciagurato Paese, per il quale tuttavia, come potete leggere, mi ostino ancora a fare un uso dell'iniziale maiuscola che potrebbe ormai definirsi spregiudicato! Ecco presto offerto un ulteriore motivo che giustificherebbe l'impiego della minuscola rispetto a quelli già messi in evidenza nel precedente post: un organismo in buona salute è in grado di opporre adeguata resistenza ai morbi che lo attaccano anche sviluppando gli anticorpi che meglio lo proteggono nel caso di un nuovo analogo attacco della malattia. L'Italia è stata infettata quattordici anni fa dalla berlusconite, da una forma politica, il libertismo, che vorrebbe scimmiottare il liberismo dallo spirito più animale ma che tende soprattutto a dare espressione ad una tipologia tradizionalmente italiana di anarchismo senza anarchici, di uomini d'autorità senza autorevolezza, che si sta rivelando il miglior pane per profittatori di ogni genere: politico, finanziario e culturale. L'attacco dei parassiti corrode ogni parte del corpo e anche in virtù di questo simultaneo decadimento di ognuna di esso il tutto fatica a percepire il generale stato di infermità. Tuttavia, come spesso accade nel decorso di una malattia, si possono verificare dei momenti di pausa in cui si possono ricuperare le forze e in effetti la berlusconite è stata apparentemente interrotta anche a lungo, ma invano. Il Paese non ha sviluppato gli anticorpi: l'elettorato non ha compreso di essersi illuso e anzi il morbo ha fatto registrare una sua recrudescenza. Adesso che il berlusconismo ha vinto impadronendosi delle menti degli italiani proiettando in esse l'immagine dello statista Berlusconi, ritenuto ieri, per lo più, "solo" uomo della Provvidenza (o, per Baget Bozzo, dello Spirito Santo) e oggi anche vero, esperto e consumato politico si può ben dire: la nostra storia recente non ha insegnato nulla agli italiani, i quali non sanno di vivere in un Paese moribondo. Dobbiamo recriminare anche per il fatto che non ci troviamo in uno di quei casi frequenti in cui, in presenza di malattie gravi, il sintomo fa la sua comparsa quando è troppo tardi per un'efficace strategia terapeutica; la sintomatologia sarebbe ormai chiara e varia da tempo, benché gli italiani non se ne siano accorti: ci sarebbe stato tempo a sufficenza per un'azione curativa. Eppure, tragicamente quanto grottescamente, non si è consapevoli dello stato morboso neppure nel suo stadio terminale: un Saccà qualunque può difendere il suo protettore dichiarando che la raccomandazione la concedono tutti e ancor prima che il suo lenone di fiducia non è solito raccomandare solo donne. Il male non esiste: tutto è bene. Viviamo in un Paese che non rinnova i propri tessuti e che in certi momenti è preda di una strana euforia pre mortem (il finto accanimento dei dibattiti dei salotti televisivi) accompagnata da più lunghi intervalli di coma.
Almeno in genere non si deridono i moribondi, invece l'Italia è oggetto della derisione dei suoi parenti (gli europei) e disprezzata dagli estranei (in testa gli americani). Che sia già carogna?

giovedì 31 luglio 2008

Il corpo malato

Quando un corpo, piuttosto che eliminare le tossine, espelle gli elementi migliori da cui è costituito il medico diviene protagonista e al corpo viene concessa la patente di infermo. Se in questi tempi bui prima della resurrezione volessimo sollazzarci rispolverando vecchie concezioni che vedevano la nazione quale corpo, potremmo cogliere l'occasione per dare un'occhiata al malato. Le forze giovani, più vitali del nostro Paese sono costrette a fuggire all'estero come indicato dalle statistiche, che contano fino al 3% di neolaureati che negli ultimi anni hanno abbandonato l'Italia per cercar fortuna altrove. A rimanere sono i pochi giovani baciati dalla sorte che riescono ad ottenere un posto di lavoro adeguato alle loro aspirazioni e ai loro studi, ma soprattutto una bella percentuale di farabutti della peggior specie, ossia quella costituita dai delinquenti che delinquono senza convinzione e senza intelligenza, solo perché di fatto concesso magnanimamente dalle leggi o perchè, smidollati come sono, intendono emulare i padri. A questi, sarebbe ingeneroso dimenticarsene, si aggiungono i criminali patentati, i manager della truffa e dell'arraffamento più che si può ma non senza arte; mi riferisco a coloro che presto vengono chiamati a rinserrare le file della Grande Armada partitica. E naturalmente non va dimenticata la fetta più grande e appetitosa della torta, la pletora di coloro che i giornalisti che realizzano i servizi per i tg definirebbero ragazzi e ragazze semplici. La peggiore delle schiatte, quella dei vegetali senza desideri se non quello di sposarsi o in alternativa, ma fa lo stesso, convivere con qualcuno che non si conosce e che in realtà non si conoscerà mai nonostante ore ed ore di sesso. Per inciso, è allora che si capisce che la frizione dei corpi produce solo olio di scarto. Che cosa dire? Gli elementi di questo, che è il gruppo più vasto di esemplari giovani italiani, non si conoscono tra di loro e non conoscono l'ambiente in cui sono immersi: al massimo, di tanto in tanto e per accampare scuse sulla loro mediocrità, danno libero sfogo ad un rivendicazionismo lacrimoso e vengono fuori frasi come "se ci fosse meritocrazia ma non ce ne è!" e "se abitassimo da un'altra parte!". Ma questa stomachevole espressione di falso disappunto (in fin dei conti questi individui sono contenti della situazione perché se ci fosse meritocrazia loro non otterrebbero niente di più di quel che già hanno e verrebbe loro sottratta anche una scusa) non risolve i problemi di coloro che meriterebbero di vivere in un Paese in cui la giustizia non fosse solo un sostantivo presente nella dicitura di uno dei ministeri e per di più in coabitazione con una delle parole che più si sono compromesse nella storia, "grazia".
Ma se si prende atto della mediocrità della stragrande maggioranza della popolazione, il paziente lettore dirà: perché mai coloro che sono dotati di buona volontà dovrebbero sprecare le loro energie per cambiare la situazione se la gran massa di coloro che la subiscono se la meritano? La risposta è duplice: primo per egoismo, la più sincera e quindi nobile di tutte le ragioni; secondo perché coloro che aspirassero a far del bene non potrebbero mai sperare di farne ad un gruppo di persone solo se questo fosse costituito da probi viri, visto che ciò non è mai successo nella storia dell'umanità (e poi perfino il terribile e vendicativo dio giudaico era disposto a salvare una città se solo vi abitavano pochi giusti a fronte del ben superiore numero di malvagi!).
Allora che fare? Indignarsi al cospetto delle spregevoli azioni dei piccoli uomini ora presenti nelle istituzioni politiche italiane, parlarne anche con i sordi che, in virtù della meravigliosa concomitanza di una completa cecità, hanno ancora il coraggio di difendere come il salvatore della patria, il duce del Libertismo, il signore di Arcore e Cologno Monzese, nonché unico vero leader, per autoinvestitura, che possa rimediare alla carenza di leadership politica in Europa. Occorre umiliare coloro che lo difendono; vorrei che questo non fosse necessario ma nella nostra società far cambiare opinione a qualcuno presuppone che si prevalga su di lui, quindi non si facciano prigionieri! L'università viene messa a posto da provvedimenti ad hoc e se tutto va per il verso desiderato non occorrerà alcun giuramento dei docenti come sotto il fascismo; la giustizia, dopo numerosi tentativi che oserei definire by-partisan, nel senso di aventi a che fare con lo spirito democratico, cosmopolita, egualitario e non-violento che caratterizza i tifosi della squadra di calcio del Partizan Belgrado, viene saggiamente messa in condizione di non nuocere senza darle apparentemente botte da orbi come in passato, bensì semplicemente rubandole abbastanza soldi perché possa funzionare. Berlusconi non sarà un genio, come del resto tutti protagonisti che hanno calcato la grande scena della storia, ma dopo quindici anni sta capendo come agire.
Infine concludo indicando un ultimo sintomo della malattia che affligge il corpo italiano: i rigurgiti xenofobi; quando il malato sta proprio male incomincia ad attribuire l'origine dello stato morboso in cui si trova a ciò che viene dall'esterno, mentre fatica a vedere che il problema è dentro di sè. La febbre è alta e si dice che c'è caldo, si rifiuta il cibo come non buono e invece non abbiamo fame.

giovedì 24 luglio 2008

Amore e morte

Non si dà nient'altro che cose; tra queste non siamo nient'altro che corpi. Le esperienze più significative che con l'esistenza si levano (sisterunt) fuori (ex) dall'indistinzione delle cose e pertanto appaiono coincidono col massimo vigore del corpo e con la sua minima forza: l'innamoramento e la morte. In quale altro momento splende più abbagliante la gloria del corpo se non nell'amplesso e dove maggiormente si concede l'evidenza della corporeità della condizione umana se non nella bara? La nostalgia per chi è scomparso trova un seppur debole rimedio nella visita al luogo della sepoltura, là dove nulla di più del corpo può essere trovato. E quando si esprime meglio la vitale ricerca del corpo da parte di un altro corpo se non nell'abbraccio degli innamorati, nella copula degli amanti da una parte e nella carezza sul viso del caro estinto dall'altra? Il reciproco incrocio degli sguardi degli amanti volto a non lasciar sfuggire nulla dell'essere corpo dell'altro fa il paio con lo sguardo rivolto al defunto da parte delle persone care o meno care prima che a loro la nuda pietra impedisca per sempre la vista di esso. Anzi, non si sottovaluti un primo segno della superiorità dell'esperienza della morte su quella dell'amore nel fatto che mentre in quest'ultima si cercano bramosi solo gli occhi di coloro che nutrono un profondo interesse l'uno per l'altro (ma non importa se si tratta anche di un amore non corrisposto) fino a volersi possedere, nell'altra invece, non di rado, si può sorprendere lo sguardo avido di colui che solo per caso o falsa buona creanza si trova nella stessa stanza del trapassato e che sembra volersi affannare alla ricerca di un ultimo godimento del corpo morto.
Non è qui in ballo la necrofilia, miei attenti lettori; forse si tratta piuttosto dell'esperienza di un mysterium tremendum che tuttavia esito ad accostare al numinoso nel timore di cedere il passo a ciò che più di ogni altra cosa opera nel velamento del significato di esso, ossia la religione. Se altro non abbiamo che un corpo, se altro non siamo che corpo, allora quale sorpresa dovrebbe destare il fatto che susciti tremore non tanto lo svelamento di questa verità, benché insisto nel ritenere che è dalla vista di un morto che si può più facilmente dedurre la nostra esclusiva corporeità, quanto il semplice incontrarsi dell'esperirsi della nostra corporeità con la corporeità del Tutto. Ed ecco qui un altro elemento che segna la superiorità, per la conoscenza, dell'esperienza della morte su quella dell'amore: quando è Eros ad agire il divenire sembra fissarsi, a dispetto della tanto proclamata vitalità sprigionata dal sentimento amoroso il flusso temporale in cui sono immersi gli innamorati subisce una riduzione all'istante nel desiderio di conservare la felicità del momento e lo spazio d'azione, quando va bene, chiude i propri confini intorno a due sole individualità; segnato il limes può avere inizio il conflitto, il miglior sintomo di una falsa vitalità. Tutt'altra situazione è quella offerta invece dalla morte: nella fissità dell'espressione del defunto, paradossalmente, si dischiude l'eternità della pace e si libera l'accesso al Tutto che ogni cosa comprende di cui abbiamo detto poche righe sopra. Non è in gioco alcuna credenza in un aldilà, ossia nessuna fiducia in una pace dell'eternità, bensì la coscienza del legame dei corpi viventi e di quelli morti, dell'indissolubilità delle cose state, stanti e che saranno. Niente di tutto questo può offrire Eros: di poco momento è l'obiezione secondo cui nell'amore si concepisce la vita futura realizzando così la continuità della specie; innanzitutto non è Eros a concepire, ma Volontà di potenza o Stoltezza, come del resto dimostra la non coincidenza della filiazione con l'amore, inoltre la specie non è il Tutto: si danno ancora corpi al di là e al di qua della specie, pertanto il suggerimento dato da Eros sull'unità del Tutto non è così valido come si potrebbe superficialmente ritenere.
Ma non lasciamoci trarre in inganno: nessuna lotta viene ingaggiata da Thanatos contro Eros, la pace non va mai contro la guerra; il conflitto è disinnescato sin dall'inizio. E' solo l'imperizia del timido autore delle povere cose che state leggendo a dar conto di superiorità e di prevalenze della morte sull'amore: queste sono nozioni che non appartengono alla natura della cosa, la morte; la quale più di ogni altra cosa si avvicina a lacerare il velo dietro cui pudica si cela la Totalità. L'esperienza di essa ci apre una finestra sul cosmo che ci pone in una visuale tanto panoramica da trascurare la virulenza delle lotte tra i corpi sino al punto di farcele percepire come espressione della naturale, ossia fisiologica, dinamica dell'attrito tra essi; e lo stesso vale per ognuno dei rappresentanti delle fazioni di corpi che si presumono in combattimento, portino pure il vessillo di Amore o di Morte.

martedì 17 giugno 2008

Animali politici 2: non c'è ignavia

Sollecitato da un devoto lettore mi trovo costretto a fugare i dubbi sulla natura della mia presa di distanza dall'azione politica. Ciò da cui mi tengo fieramente lontano è il miserabile partecipare della potenza del mio capo politico o ancor peggio del candidato che dovrei scegliere, ciò da cui fuggo sono i cedimenti alle fantasie di onnipotenza in cui naufragano i mediocri che sbavano per un seggio da consigliere comunale e la bassezza tronfia di sè che crede di sostanziarsi in polemica politica se ingiuria l'avversario. Del resto, quale sacrificio varrebbe l'impelagarsi tra cotanto squallore se poi la collettività brama l'anarchia, la possibilità di aggirare le regole e la sopraffazione del concittadino anche nelle circostanze più ordinarie? E' forse ignavia di fronte alla realtà questa espressione di disimpegno? No di certo! Le realtà creano se stesse in compartecipazione con coloro che le osservano e chi meglio dello spirito teoretico sa osservare, sa stare a guardare, per forzare un po' i termini della questione? Commentare ciò che avviene, il semplice descrivere la scena su cui si muovono gli scellerati protagonisti della politica lancia un'occhiata sul retroscena e con ciò stesso lo crea. Scena e proscenio non sono tutto: solo la festa delle apparenze per spiriti mollemente effeminati che vantano la propria virilità.
Quanto poi sulla possibilità che si offrano scenari politici differenti da quelli che si presentano meschinamente ai nostri occhi pieni di candore di giovani speranzosi è meglio squarciare il velo delle illusioni. Tutto potrà cambiare dalle nostre parti, ma non nei prossimi due decenni e sono certamente ottimista. Il clientelismo domina ogni azione del fare sociale; corrode la sfera politica dalle sue stesse radici sociali. Non si dà relazione senza cliente. Ovunque e senza timore alcuno di impudicizia: nella sanità, nell'università, nella giustizia, nelle forze dell'ordine. L'unica soluzione che consentirebbe di non sprecare i giovanili anni sarebbe quella di diventare presto cittadini danesi o svedesi, giusto per andare sul sicuro e non fidarsi di tedeschi e francesi, che sono già migliori di noi. Ma sulla danesicità e la svedesicità nuovi inquietanti post saranno scritti e allora molti tremeranno di fronte all'esposizione di dottrine estetiche che non godono del favore dei lettori.

lunedì 16 giugno 2008

Animali politici

Va da sè, la posizione degli elementi componenti il titolo può essere invertita. Quale occasione migliore delle elezioni comunali di un piccolo paese per riflettere sulla politicità in essenza dell'essere uomo? Splendidi esemplari umani che sonnecchiano per anni, anzi decenni, in officine per meccanici, in macellerie o dietro la scrivania da segretaria presso uno studio medico trovano sorprendente espressione nell'agone politico. Tutti cercano voti chiedendoli a qualsiasi malcapitato che si imbatta nelle loro vicinanze. Nell'inebriante atmosfera politica di quei giorni perfino i sentimenti più nobili e degni di un animo aristocratico come l'inimicizia vengono meno; ma del resto non c'è ordinamento democratico che tolleri alcunché di aristocratico, tanto meno di nobile (immagino già l'obiezione dei miei dotti e saggi lettori che addurrebbero quale obiezione il mondo greco; ma lasciamo il mondo altro che è ben lontano dall'appartenerci). La qualità, ancor più che consuetamente nei paesi, viene non aborrita, cosa che sarebbe già pregevole, bensì semplicemente e candidamente trascurata. Il mio voto, il che è dire la mia testa, vale quanto quella della commessa del panificio: la quantità di parenti di un candidato (si badi bene, non il numero, che in ultimo si riconduce sempre all'unità) è l'arma in più e la ragione prima che induce i promotori delle liste a scegliere un candidato per esse. Eppure, i candidati più miserabili non sospettano nulla delle logiche che presiedono alla loro selezione: gonfiano il petto d'orgoglio e cedono alla convinzione che loro sono cittadini in vista, gente capace di deliberare. E quanto più indomita si presenta quella fierezza se più ferma è la loro convinzione che i limiti del cosmo siano stabiliti dai confini del loro comune! E' comprensibile: se si è signori del cosmo tutto la percezione della propria onnipotenza è più sicura.
Ma proseguiamo nelle pur banali riflessioni: dove si può osservare meglio che nel corso delle giornate elettorali presso piccoli paesi quanto sia precaria la legalità? L'Ocse invia osservatori nell'est europeo e non da noi. Faccio qualche esempio parlando del comune in cui ho la ventura di vivere, Viagrande: in palese inadempienza delle leggi i candidati e i loro scagnozzi presiedono militarmente il seggio elettorale nel vuoto dei controlli di coloro che dovrebbero fare i militari per professione. Del resto questi hanno altro cui pensare: conversare amabilmente sui pettegolezzi del paese con i candidati stessi che conoscono personalmente e i più giovani tra loro esprimere commenti sulle presunte bellezze del paese che si raccolgono intorno al seggio giusto per raccogliere un po' di crusca. Naturalmente è lecito che chiunque elemosini il voto anche a due metri dal seggio elettorale e ogni protesta sarebbe vana.
Ed ancora, per completare il quadro, come si potrebbe trascurare che quei giorni di festa elettorale culminano negli eleganti festeggiamenti che seguono la proclamazione del vincitore? Fuochi d'artificio, complessi bandistici e offerta di cibarie a tutti i cittadini determinano in maniera definitiva la natura dell'occasione, del tutto analoga a una sagra paesana o peggio ad una festa patronale. L'esibizione priva di clementia del vincitore, il vivo disprezzo del perdente, la sua irrisione sono degno corollario del tutto (si intende, del tutto cosmico del paese in questione).
Infine una lucida osservazione che ha la pretesa di soddisfare coloro, tra i miei lettori, che hanno palati più teoretici. Ci si duole, nel contesto elettorale nazionale, dello scontro tra schieramenti ideologicamente caratterizzati, ma nei piccoli paesi, al di là degli inverecondi passaggi di fronte cui si può assistere da un giorno all'altro e al di sotto delle apparenze, le connotazioni politiche vengono meno. In altri termini, la maschera dell'idea viene deposta e se i fenomeni raccapriccianti da me descritti hanno luogo è perché das Essentielle dell'uomo (parlare di Wesentliche sarebbe inverecondo quanto quei passaggi) in relazione con l'altro uomo viene fuori senza mediazioni. I graziosi doni della civiltà vengono rifiutati con il rifiuto stesso della maschera. Si oppone allora il diniego anche nei confronti della persona, a dispetto della personalizzazione del fare politico in seno al piccolo paese. E del resto di quali persone v'è traccia tra i protagonisti di quei magnifici giorni? Ve ne è traccia tra gli attori-candidati o tra gli spettatori-elettori? Un candidato alle provinciali mi ha inviato a casa una bella lettera in cui tra l'altro si rammaricava del fatto che i cani non portassero voti, io avrei miei dubbi su tale incapacità elettorale da parte dei cani per l'accanimento mostrato da certa gente; macché dico accanimento, da quale fallacia logica mi sono fatto irretire! Quale accanimento si può dare per chi cane già è; quale divenire si può dare per l'essere?
Ma questi, in fin dei conti, non sono affar nostri: voi siete lettori e non elettori e io mi guardo bene dal candidarmi, perché sono già candido.

venerdì 6 giugno 2008

Via la maschera!

Le coincidenze sono tutto. Ciò che non incide insieme con qualcosa d'altro non ha alcuno statuto di realtà, la quale mai lascia emergere qualcosa d'assoluto, di incidente in solitudine. Ecco la visita del premier nelle sempre meno segrete stanze vaticane, per l'appunto documentata come non mai da reporter di ogni risma; ecco l'ostentazione di una coincidenza di propositi, progetti e azioni tra il Sommo Pontefice e il suo omologo italiano. A questo punto che cosa aspettarsi di meglio della proposta di punire le prostitute (quelle di strada, si intende) per la grave offesa al decoro e ai sani principi tenuti in alta considerazione dagli italiani tutti? Naturalmente, come tra la maggior parte del popolo cattolico o sedicente tale, al governo si vuole pensare (ammesso che esso sia capace di pensiero) che la colpa, nel contesto della prostituzione, sia da attribuire esclusivamente alla donna. Nessuna sanzione si prende in considerazione contro il cliente, contro colui che è la stessa ragione d'essere del turpe mercato. Ma si sa: la colpa è sempre della donna. Speriamo che qualche voce dalla Chiesa si degni di protestare, anche solo per non abbandonare la maschera di chi, in teoria, ama tutti indistintamente. Tuttavia l'esempio è stato dato una volta per tutte: Cristo perdonò la donna, non gli uomini che si erano serviti del suo corpo, pertanto non c'è molto da aspettarsi se non a prezzo di snaturare la sacra tradizione ecclesiastica.
Infine una considerazione: ma siamo sicuri che gli uomini di Chiesa vogliano estirpare la prostituzione e non, sotto sotto, tollerarla e solo arginarla, nella certezza che l'uomo sia debole e che gli vada data la possibilità di sfogarsi? Nulla da obiettare sulla debolezza dell'uomo, ma certamente è, dal punto di vista sessuale, ancora più debole se lo si costringe dentro dei limiti innaturali. Non sono forse gli animali in cattività più deboli di quelli selvaggi? E del resto, come potrebbe un'istituzione come la Chiesa, che auspica, consiglia e comanda la conservazione della famiglia monogamica saper trovare una soluzione contro la prostituzione, contro cui Schopenhauer raccomandava la poligamia come più saggio antidoto?
Nota a margine per sfuggire alle coincidenze, altrimenti sembra di parlare di cose reali: ma perché non si fa alcun riferimento alla percentuale delle donne, quando non bambine, tra coloro che esercitano la prostituzione sulle nostre strade solo perché costrette con la violenza? Semplice: perché secondo la coerente ideologia delle destre, pseudolaiche o confessionali, spesso si ritiene una contraddizione in termini quella secondo cui una donna possa concedere un rapporto sessuale contro la sua volontà.

giovedì 15 maggio 2008

Aphorismoi beta

Cari lettori (o forse dovrei dire bella lega di bricconi), dopo un lungo silenzio, vi offro altri miei poveri aforismi, che sono per la maggior parte il risultato del fraintendimento di fondamentali letture nietzscheane e di audaci, forse estremistiche ma di certo, ahinoi, non radicali riflessioni su di esse.

Gli enti e il Sè, lo spazio e il tempo abbracciati nella medesima sorte: assorbiti dall'illusione. Il mondo come illusione del soggetto che per primo si illude quando si pensa. Deus sive illusio.

Il mondo come inganno autentico, il Sè come vaneggiamento di Narciso, la morale come feroce illusione. La morte cala come notte del disvelamento.

Scorrono la vita e il mondo come immagine di sogno tra il sonno profondo del non essere ancor nati e del non essere più vivi.

Si oppone fiera alla legittimità della ricerca della felicità la necessità della serenità.

Quale distanza separa il sogno dalla parvenza, l'errore dell'illusione dalla dolce gioia!

Si muove invano l'artista verso la gioia, che sola è data all'opera d'arte.

Gli dei dell'inaccessibile Olimpo tra i terreni umani dolori e l'animo sublime di chi può e sa tacitare la sofferenza. Operava una necessità affinché a quegli venisse concessa la vita dagli uomini.

Ci fa ingenui la cultura; solo allora si dà a vedere la genuinità.

Ha più bisogno dell'illusione il mondo che non il vivente.

Sta, tra la negazione del desiderio e della volontà tutta e l'atroce benedizione dell'orrore dell'esistenza, lo spirito ottuso di chi cede al desiderio e si lamenta dell'esistente.

Si dà l'esigenza della morale per l'esistenza, la necessità della bellezza e dell'arte per la vita, la libertà del conoscere nella filosofia.

Il Greco viveva nella natura e vedeva il satiro, l'uomo moderno guarda la natura, il suo essere naturale, e vede la scimmia. I giovani sono sempre più ottusi dei vecchi.

L'occhio smaliziato trasfigura il mito in realtà naturale o storica e non tarda la superstione a fare la sua comparsa.

La logica applica il guinzaglio all'istinto e sorge il monstrum.

Vede l'alba l'occhio capace di godere il bello quando da poco il sensibile dolore ha visto il suo tramonto. E l'alternarsi di tenebra e luce non accenna ad arrestarsi.

Il dolore chiama il piacere e questo invoca il dolore perché possa non venir meno. Chi potrebbe scorgere nella loro individualità il volto di Dioniso e di Apollo, di Antigone e di Cassandra sotto quelle sembianze? E chi potrebbe così spiegare la spietatezza del piacere, la sua normatività, la sua sete di individualità?

Indebolito, l'individuo si estingue nella massa, che ne potenzia l'individualità. Nessuna organicità nelle masse.

Quasi niente di più stolto dell'uomo: solo il figlio.

Il grave pericolo del pensiero gioca per noi in favore della serenità.

Nel seno la forza di gravità vince la donna. In esso la natura vince l'uomo (stolto).

Si dà intelligenza solo col corpo e nel corpo. Come sono sciocchi gli angeli!

sabato 12 aprile 2008

De infelicitate

Le pretese del presente post sono minori di ciò che il titolo suggerirebbe: l'oggetto della discussione è circoscritto all'infelicità e felicità dei soli uomini. Poco so della felicità e della sua mancanza presso gli altri animali, le intelligenze angeliche e gli dei, benché in proposito nutra qualche concreto sospetto.
Prendo le mosse dalle motivazioni che mi inducono a parlare di infelicità piuttosto che di felicità. La ragione è presto detta: quest'ultima ci è ignota e pertanto sarebbe ozioso parlarne; che si frequentino dunque lidi a noi più noti. Eppure quasi tutti gli uomini vivono nella fiduciosa speranza di poter essere felici quando non sono perfino convinti di esserlo. Il peso dell'esistenza è avvertito come più lieve e questo, a mio avviso, soprattutto in virtù della solida presenza della prospettiva futura nel nostro presente. Quanto è più agevole attribuire al futuro una positività che spesso al presente è impossibile assegnare! E che dire del segno che viene in genere attribuito agli eventi che si sono già vissuti? Sia sufficiente ricordare in proposito quanto sosteneva Giacomo Leopardi in relazione al rifiuto, da parte degli uomini, di vivere daccapo la medesima esistenza già vissuta in quanto globalmente ritenuta insoddisfacente. Tutt'al più si potrebbe aggiungere che una soluzione ampiamente adottata dagli uomini al fine di approntare una strategia difensiva nei confronti dell'infelicità che proviene dalla percezione e considerazione del presente che si vive consiste nell'astrarre, cristallizzare e idealizzare un frammento di tempo vissuto privandolo di ogni possibile segno negativo che lo caratterizza. Si pensi agli anziani che ricordano con nostalgia i bei vecchi tempi e la vigorosa gioventù o anche solo i giovani che ricordano la tenera e incantata infanzia. Illusioni! Direbbe il filosofo. L'uomo procede sempre sulla via del dolce quanto necessario autoinganno. Ad ogni modo, simili valutazioni potrebbero anche suggerirci che ciò che gli umani assumono come momenti felici spesso non sono altro che momenti meno infelici. La relazione con qualcosa d'altro sembra cambiare le carte in tavola. Ma ciò che è più importante è che, ancora una volta, ci troviamo costretti a parlare della felicità facendo ricorso ad un oggetto più solido, che tuttavia, come mi sforzerò di mostrare in seguito, decisamente più solido non è. Inoltre, non si trascuri che la stessa pallida imitazione della felicità che la costruzione del ricordo può concedere non è spesso altro che fonte e sorgente di nuova infelicità: che cos'altro sarebbe anche la più dolce nostalgia?
Per tirare le fila del discorso, nè il passato nè il presente sono generosi con l'uomo fino al punto di concedergli la felicità e il futuro, solo perchè incerto, è l'ultima riserva dove forti possono crescere le illusioni. Tuttavia, la dimensione dell'avvenire è per altri versi la condizione più necessaria dell'infelicità: che cosa ne sarebbe dei moti del desiderio, senza i quali, in ultima analisi, verrebbe meno l'infelicità, se non sussistesse il futuro (del resto, anche quella che proviene dai ricordi è intrisa di desiderio di vedere mutate le cose nell'immaginazione, movimento che al di là di ogni apparenza rimanda ad un'azione a venire)? Certamente qualcuno mi rimprovererà un eccessivo pessimismo ma credo che da parte mia possa essere legittima la seguente obiezione: non si identifica forse la felicità con uno stato durevole di benessere e dura forse il passato o dura forse il presente? Durerà forse il futuro ma ciò che è da venire è polvere nell'aria.
Giunti a questo punto della discussione sorprenderò quanti tra di voi, uomini di poca fede, disperavano che queste mie povere riflessioni potessero offrire anche ragioni di speranza. Infatti, proprio in virtù dell'inconsistenza del passato e del presente vissuti, come del futuro, il nostro animo non dovrebbe soccombere di fronte all'esperienza dell'infelicità che, ahinoi, li caratterizza. La nostra esistenza dovrebbe acquisire una levità di cui neanche l'esistenza del più felice degli uomini potrà mai godere. Allora che la folle corsa verso la soddisfazione di desideri impossibili da soddisfare o gioie sterili che richiedono un carico di sacrifici di gran lunga sproporzionato al risultato cui si aspira venga fermata prima che parta; che il vano sforzo di godere intensamente fino ad annientare le capacità della nostra corporeità benché frutto, talvolta, di una germinale consapevolezza della natura sfuggente del piacere venga abbandonato; in altri termini, che la coscienza della necessità della privazione di felicità in cui consiste l'infelicità accompagni i nostri giorni con la serenità che può donare. E' in gioco l'antica questione della lotta contro il desiderio che si vuole rendere antidoto al male che crea: desidera e la premurosa natura e i suoi diligenti figli, gli uomini, saranno in grado di celarti l'assurdità dell'esistenza e la lunga sequela dei dolori di cui ti vogliono beneficare; del resto, si può andar tra i vermi senza accorgersi di nulla di ciò che succederà nel corso dell'esistenza: basta incessantemente desiderare e, naturalmente, soffrire, ma questo è affare di poco conto.
Infine, concludo, si diffidi da coloro che sostengono l'esistenza di una infelicità perfetta: nulla tra gli uomini si dà di perfetto, tutt'al più può emergere l'assoluto, questo sì compatibile con la fine della nostra vita, la morte, dono prezioso della corporeità di cui siamo costituiti.

venerdì 11 aprile 2008

Ahi lassa Italia!

Le urne vedranno presto l'afflusso degli elettori ma se un cambiamento ci sarà esso sarà di segno negativo. La classe politica italiana, ma sarebbe più corretto parlare di ceto vista la sua refrattarietà al ricambio), sembra sempre toccare il fondo, tuttavia la feccia risale dal pozzo ogni volta in maniera più sorprendente. Per ragioni storiche ben precise individuabili nella rigida ma ipocrita morale controriformistica e nell'asservimento a potenze straniere cui il vile italiano si assoggettava spesso con favore per trarne dei miseri vantaggi l'onestà del nostro popolo e dei suoi rappresentanti politici è sempre stata cosa assai rara a scorgersi, ma nell'ultimo quindicennio si è sommato a questa deplorevole situazione un valore aggiunto. La volgarità della vita politica e sociale ha trovato il modo di esprimersi in forme per certi versi ignote alle altre mature democrazie del pianeta. Quanto dico credo sia stato facile da osservarsi nel corso di questa campagna elettorale e non c'è da stupirsi se questo è successo proprio in occasione di essa: in ogni dove i giorni della propaganda politica riescono arendere peggiori gli uomini, pensiamo se questo può non accadere presso un popolo tanto sciagurato come quello italiano. Si consideri l'uso sempre più diffuso, per di più da parte di importanti esponenti politici, di espressioni triviali quali "non gliela darò mai", "rompicoglioni" (riedizione del vecchio cavallo di battaglia "non possono essere così coglioni"), "io non alcun bisogno del viagra". Ve ne risparmio un lungo e sconcertante elenco ma non posso esimermi dall'aggiungere che sono sempre più in voga le battute, presunte o reali, sul ricorso alle armi per raggiungere nobili obiettivi quali il rifacimento delle schede, percepito come necessario in quanto i politici sono ben consapevoli del carattere ridotto delle dotazioni cerebrali di una considerevole parte dei loro elettori, i quali non sono in grado di espletare operazioni intellettuali meramente tecniche come mettere una croce su un solo simbolo ma che si assume siano capaci di operare scelte politiche, le quali esigono la valutazioni su più variabili. Contraddizioni della politica!
Certo, nelle altre democrazie non tutto è rose e fiori ma i politici italiani si sforzano di importare il peggio di esse. Anche da noi, come da decenni negli States, i maggiori leader avvertono ormai l'esigenza di farsi considerare amici di attori famosi, sportivi e altre star dello spettacolo. Fra qualche tempo potremo assistere alle urla entusiaste di fans in visibilio sotto il palco dei comizi o all'uscita dai palazzi del potere come da tradizione americana, per ora ci possiamo accontentare di timide schiere, per lo più costituite da giovani senza pensiero e senza midollo. Ma cari lettori, non temete, non dimentico che il nuovo inno che accompagna gli sketch di Berlusconi presenta, tra l'altro, una frase come "meno male che c'è Silvio!". Bel passo in avanti sulla strada della trasformazione del politico in una star adulata dai fans, forse. E se invece si trattasse solo di una versione moderna del nostro caro e vecchio desiderio tutto italiano di assoggettarsi all'uomo forte? ad ogni modo, in qualunque direzione si volga il nostro sguardo, c'è solo desolazione.
Quante belle dichiarazioni in avvio di campagna elettorale sull'esclusione dalle liste dei condannati, perfino di quelli in primo grado! E poi cosa ci è stato offerto? Mafiosi, corruttori, ladri e criminali di ogni genere sono in pole position per un seggio in parlamento. E dire che il furbo Berlusconi aveva messo le mani avanti precisando che si sarebbe valutato se si trattava di condanne politiche inventando così la ragione politica della condanna! Non occorreva correre il rischio di una tale figuraccia: tanto tutti hanno imposto i loro fidi infidi perfidi amici. Facendo i conti, probabilmente il numero di pregiudicati in parlamento di questa promettente legislatura sarà costante: un centinaio di chierichetti, ma chissà se ci saranno anche giovanotti con la faccia da film demenziale che con la moglie gravida andranno a puttane!
In questo contesto l'italiano, che è sempre più furbo del suo vicino, pensiamo dello straniero, si farà abbindolare ancora una volta dal più furbo tra i furbi, il quale è furbo perché la legge non esiste. L'individuo che all'estero viene definito, in circostanze diverse o perfino nella stessa circostanza, tanto mafioso quanto massone, ladro, corruttore, barzellettiere e sedicente macho sarà messo nelle condizioni di farsi burle delle istituzioni (viva le decisive riunioni ad Arcore del lunedì!), dei politici stranieri salvo quelli di cui sentirà il bisogno di farsi fedele cagnolino da passeggio (come è bello vedere che i forti sono forti solo con i deboli mentre desiderano mostrarsi devoti con i veri forti!) e della giustizia. Niente sveglia lo stolto italiano: intercettazioni che stroncherebbero la carriera politica di chiunque all'estero (perfino negli Usa, dove è di rilevanza politica anche l'adulterio), banalizzazioni del precariato, dichiarazioni esplicite su futuri impegni di truppe italiane in Iraq, osanna a boss mafiosi condannati all'ergastolo. E del resto, perchè mai l'italiano medio dovrebbe essere sconvolto da tributi all'eroismo di un mafioso che non ha aperto la bocca contro il latore di tali tributi? La maggior parte dei nostri compatrioti la pensano come Berlusconi e Dell'Utri: chiunque può commettere qualsiasi reato ma se non fa del male a me o se perfino mi aiuta è una persona dabbene.
E' in questione il valore della coscienza e dell'intelligenza dell'italiano medio, ma ancor più di quella dei leader politici. Berlusconi ne è l'esempio più lampante, ma altri lo rincorrono affannosamente e per certi aspetti lo hanno già superato: il capo politico è diventato una macchietta, un comico da avanspettacolo e il fatto che l'elettorato non ne abbia una chiara percezione poco conta. E non c'è di che sorprendersi: già ai tempi di Guglielmo II, l'imperatore tedesco, si diceva che vestivano i panni dei sovrani delle figure ridicole rispetto a quelle del pur recente passato; in seguito si rise, invano, della cattiva imitazione che l'imbianchino mise in scena, una tragica parodia dei fasti del passato; oggi si è arrivati al cabaret da bassifondi senza passare dalla fase comica.

martedì 25 marzo 2008

Aphorismoi alpha

Aforisma: una delimitazione, un isolamento, una definizione.

La donna formosa: la negazione della forma. La falsificazione della metafisica: opera della donna e non delle velleità positivistiche.

One man one vote: la venerazione della libera volontà di tutti a discapito del profondo intelletto. Quale stupore? Rousseau osannò la volontà generale, non l'intelletto generale.

L'uso capione. La violenza nel diritto. L'illuminazione della violenza in qualsivoglia diritto.

L'etimologia vera o supposta. L'invenzione dei significati è operazione radicale. Niente di più significativo ed inutile delle radici.

L'occhio: lo specchio lucido delle nefandezze dell'uomo; dell'uomo che ne è autore, di quello che ne è vittima.

La mano. La distanza che ci separa dal mondo; l'uomo che si fa strumento; ciò che separa la necessità della brutalità dalla sua possibilità.

La speranza è di pochi, l'illusione di tutti.

Agli ingenui le religioni, agli audaci l'ateismo, ai folli le filosofie, ai sapienti una qualche verità.

Umwelt. Die Welt. Nell'un caso liberi di sentirsi determinati, nell'altro schiavi di ogni possibile schiavitù.

La guerra. La stoltezza che si fa ferocia e indifferenza; l'animale che si fa uomo.

La divisa. La pecora nel gregge; il lupo tra gli agnelli; il manganello si fa rappresentante dello Stato.

La mafia è Stato; il mafioso uomo dabbene; il cittadino roba per altri Stati e altri lidi, non i nostri, si intende.

Faccio solo il mio lavoro. Quale importanza per il lavoro che faccio? Scanno o curo, obbedisco o comando. Nessuna differenza. Non c'è spazio per la vita, per la vita nel lavoro: le macchine vivono tra di noi.

domenica 16 marzo 2008

Le Tavole della Legge

Ecco il post che i miei lettori più empi attendevano e che quelli più pii e devoti temevano. I banditori della religione cristiana, soprattutto per quanto attiene la sua espressione latina, ricorrono oggi più di un tempo, quando il fondamento naturale alla morale poteva vantare un valore speculativo e filosofico più consistente, all'argomentazione secondo cui le leggi morali giudaico-cristiane farebbero splendere la loro ragionevolezza e la loro validità universale se solo venissero messe a confronto con la natura, che, è chiaro, si identifica poi con la perfetta creazione dell'unico Dio. Ci proveremo nella confutazione di tale strategia che sembra avere il sapore di una estrema difesa. A tale scopo, nell'ambito di questo post, ci limiteremo ad una disamina della parte meno paradossale della morale giudaico-cristiana e pertanto di quella che dovrebbe essere meno indifendibile alla luce di un esame razionale di superficie. E' in questione la naturalità delle leggi donate da Dio a Mosè sul monte Sinai. Per iniziare, un intelletto che proceda sicuro per le vie di una razionalità non per forza profonda potrebbe oggi dichiarare senza tema di sbagliarsi il carattere naturale e universale del primo comandamento: "Non avrai altro Dio all'infuori di me"? E' così ragionevole attribuire a un dio il potere sul mondo? E' così certo che nel caso in cui si dia il divino esso sia ridotto ad unum? E non si trascuri il corollario di questo primo comandamento, che impone di non farsi immagini di alcunché: il divorzio tra l'espressione iconica e il sacro sancito sin dall'inizio della cultura giudaico-cristiana segna una distanza mai più colmata neanche dalla speculazione filosofica cristiana più profonda tra la realtà del mondo e l'uomo di fede. In altri termini, al seguace del giudaismo prima, del cristianesimo poi non è dato accesso alla creazione se non per mezzo di Dio e questo avviene non solo nel momento della sua comparsa su questa terra ma in ogni momento della sua esistenza. L'uomo è stato, per questa via, reso più solo e indifeso. E sotto questa luce non sorprende che un dio geloso delle proprie esclusive prerogative abbia voluto donare una tale solitudine alle proprie creature, sì da renderle maggiormente asservite al suo dominio. Be', che dire? Risponde a un disegno razionale la separazione dell'io dal mondo? In tale ottica, i nemici cristiani della separazione del soggetto dal Tutto sono vittime di un fraintendimento.
Passiamo al secondo comandamento: "Non userai invano il nome del Signore Dio tuo". Un pensiero razionale non avrebbe niente da obiettare su un simile ammonimento ma le cose assumono il loro significato anche in relazione alla loro posizione nell'ordine delle cose. Esige una condotta morale razionale una simile priorità? E' questo comandamento da anteporre a quello relativo all'omicidio? Ancora una volta la suscettibilità del Dio ha avuto la meglio. Lo stesso dicasi per l'ammonimento a santificare le feste. Analogo discorso sulla gerarchia dei valori è valido anche per l'invito ad onorare il padre e la madre, più retaggio di una cultura fortemente basata sulla struttura familiare che dono di una qualche ragione, che esigerebbe piuttosto maggiore attenzione per la sottrazione della vita ad un proprio simile. Di fronte a questo sfasamento tra valori religiosi e valori che il giusnaturalismo avrebbe definito naturali in merito all'importanza dell'assassinio, il seguito del decalogo offre poche ulteriori occasioni di critica. Tuttavia stupisce almeno, al versetto 17 del XX capitolo dell'Esodo, l'ammonimento a non desiderare, prima di tutto, la casa del proprio prossimo piuttosto che sua moglie. In conclusione, non ci si può esimere dal dolersi di una grave assenza nel decalogo, dove non si fa menzione alcuna dello stupro; segno che l'attenzione per la persona è, in esso, assai trascurabile. Ma anche questo gli spiriti pii hanno saputo e sapranno giustificare con una ricollocazione storica del dono dei comandamenti da parte di Dio a Mosè. La storia viene in soccorso al bisogno, e pure la natura e la sua compagna razionalità, benché, come si è cercato modestamente di mostrare, niente affatto a buon diritto.

martedì 11 marzo 2008

Homo omnipotens deus

Il titolo, va da sè, intende essere sarcastico. L'uomo aspira a farsi dio benchè spesso non sia in grado neppure di salvaguardare la sua stessa natura d'uomo. Dall'essere umano si dipartono per ogni dove (in questo senso si allude al concetto di onnipotenza e non certo perchè essa possa darsi integralmente e tutta in una volta in un medesimo soggetto) direttrici di potenza cui è affidato il gravoso compito di tacitare l'angoscia che offre la consapevolezza della fragilità. Per accorgersene è sufficiente osservare l'atteggiamento degli uomini nei confronti dei bambini e dei morti. E' stato autorevolmente affermato che il concepimento risponde soprattutto ad un desiderio di soddisfare la propria volontà di potenza e di garantirsi un'immortalità nella progenie e ciò basterebbe a scandalizzare gli intelletti e ancor più i cuori degli stolti; ma possiamo vedere all'opera la potenza umana anche nelle amorevoli cure che la nostra specie riserva ai piccoli: quanto spesso anche un genitore si diletta ad affermare il proprio arbitrio sul figlio sentendosi peraltro autorizzato a farlo in quanto più forte piuttosto che più autorevole? E non voglio dire che gli ordini imposti debbano essere per forza illegittimi, piuttosto che la vera radice di essi non è la responsabilità o la giustizia o quel sentimento che chiamano amore ma il bisogno di affermare una potenza: la propria. E non si sottovaluti il compiacimento che coglie coloro che assistono al pianto di un bimbo: quale godimento sorge dalla condizione inerme del debole!
Passiamo all'altra, a mio parere, evidente espressione della ricerca di potenza da parte dell'uomo: quella che si serve dei morti. Se chi scrive non vede ciò che non può vedersi perché non c'è, è possibile affermare che in coloro che prendono parte a delle esequie, specialmente se non profondamente coinvolti dalla mestizia della circostanza, è riscontrabile un senso di potenza per l'essere ancora vivi, per la possibilità di poter seppellire un proprio simile e in definitiva per la momentanea illusione, segnata da una speciale ebbrezza, di sentirsi meno mortali.
Tralascio di parlare della relazione di potenza che il sano instaura con il malato perché spesso in essa è prevista la controindicazione del fastidio, quando non dell'autentica sofferenza, che il primo deve tollerare, la quale rende meno chiara e piacevole la sorgente della potenza.