martedì 25 marzo 2008

Aphorismoi alpha

Aforisma: una delimitazione, un isolamento, una definizione.

La donna formosa: la negazione della forma. La falsificazione della metafisica: opera della donna e non delle velleità positivistiche.

One man one vote: la venerazione della libera volontà di tutti a discapito del profondo intelletto. Quale stupore? Rousseau osannò la volontà generale, non l'intelletto generale.

L'uso capione. La violenza nel diritto. L'illuminazione della violenza in qualsivoglia diritto.

L'etimologia vera o supposta. L'invenzione dei significati è operazione radicale. Niente di più significativo ed inutile delle radici.

L'occhio: lo specchio lucido delle nefandezze dell'uomo; dell'uomo che ne è autore, di quello che ne è vittima.

La mano. La distanza che ci separa dal mondo; l'uomo che si fa strumento; ciò che separa la necessità della brutalità dalla sua possibilità.

La speranza è di pochi, l'illusione di tutti.

Agli ingenui le religioni, agli audaci l'ateismo, ai folli le filosofie, ai sapienti una qualche verità.

Umwelt. Die Welt. Nell'un caso liberi di sentirsi determinati, nell'altro schiavi di ogni possibile schiavitù.

La guerra. La stoltezza che si fa ferocia e indifferenza; l'animale che si fa uomo.

La divisa. La pecora nel gregge; il lupo tra gli agnelli; il manganello si fa rappresentante dello Stato.

La mafia è Stato; il mafioso uomo dabbene; il cittadino roba per altri Stati e altri lidi, non i nostri, si intende.

Faccio solo il mio lavoro. Quale importanza per il lavoro che faccio? Scanno o curo, obbedisco o comando. Nessuna differenza. Non c'è spazio per la vita, per la vita nel lavoro: le macchine vivono tra di noi.

domenica 16 marzo 2008

Le Tavole della Legge

Ecco il post che i miei lettori più empi attendevano e che quelli più pii e devoti temevano. I banditori della religione cristiana, soprattutto per quanto attiene la sua espressione latina, ricorrono oggi più di un tempo, quando il fondamento naturale alla morale poteva vantare un valore speculativo e filosofico più consistente, all'argomentazione secondo cui le leggi morali giudaico-cristiane farebbero splendere la loro ragionevolezza e la loro validità universale se solo venissero messe a confronto con la natura, che, è chiaro, si identifica poi con la perfetta creazione dell'unico Dio. Ci proveremo nella confutazione di tale strategia che sembra avere il sapore di una estrema difesa. A tale scopo, nell'ambito di questo post, ci limiteremo ad una disamina della parte meno paradossale della morale giudaico-cristiana e pertanto di quella che dovrebbe essere meno indifendibile alla luce di un esame razionale di superficie. E' in questione la naturalità delle leggi donate da Dio a Mosè sul monte Sinai. Per iniziare, un intelletto che proceda sicuro per le vie di una razionalità non per forza profonda potrebbe oggi dichiarare senza tema di sbagliarsi il carattere naturale e universale del primo comandamento: "Non avrai altro Dio all'infuori di me"? E' così ragionevole attribuire a un dio il potere sul mondo? E' così certo che nel caso in cui si dia il divino esso sia ridotto ad unum? E non si trascuri il corollario di questo primo comandamento, che impone di non farsi immagini di alcunché: il divorzio tra l'espressione iconica e il sacro sancito sin dall'inizio della cultura giudaico-cristiana segna una distanza mai più colmata neanche dalla speculazione filosofica cristiana più profonda tra la realtà del mondo e l'uomo di fede. In altri termini, al seguace del giudaismo prima, del cristianesimo poi non è dato accesso alla creazione se non per mezzo di Dio e questo avviene non solo nel momento della sua comparsa su questa terra ma in ogni momento della sua esistenza. L'uomo è stato, per questa via, reso più solo e indifeso. E sotto questa luce non sorprende che un dio geloso delle proprie esclusive prerogative abbia voluto donare una tale solitudine alle proprie creature, sì da renderle maggiormente asservite al suo dominio. Be', che dire? Risponde a un disegno razionale la separazione dell'io dal mondo? In tale ottica, i nemici cristiani della separazione del soggetto dal Tutto sono vittime di un fraintendimento.
Passiamo al secondo comandamento: "Non userai invano il nome del Signore Dio tuo". Un pensiero razionale non avrebbe niente da obiettare su un simile ammonimento ma le cose assumono il loro significato anche in relazione alla loro posizione nell'ordine delle cose. Esige una condotta morale razionale una simile priorità? E' questo comandamento da anteporre a quello relativo all'omicidio? Ancora una volta la suscettibilità del Dio ha avuto la meglio. Lo stesso dicasi per l'ammonimento a santificare le feste. Analogo discorso sulla gerarchia dei valori è valido anche per l'invito ad onorare il padre e la madre, più retaggio di una cultura fortemente basata sulla struttura familiare che dono di una qualche ragione, che esigerebbe piuttosto maggiore attenzione per la sottrazione della vita ad un proprio simile. Di fronte a questo sfasamento tra valori religiosi e valori che il giusnaturalismo avrebbe definito naturali in merito all'importanza dell'assassinio, il seguito del decalogo offre poche ulteriori occasioni di critica. Tuttavia stupisce almeno, al versetto 17 del XX capitolo dell'Esodo, l'ammonimento a non desiderare, prima di tutto, la casa del proprio prossimo piuttosto che sua moglie. In conclusione, non ci si può esimere dal dolersi di una grave assenza nel decalogo, dove non si fa menzione alcuna dello stupro; segno che l'attenzione per la persona è, in esso, assai trascurabile. Ma anche questo gli spiriti pii hanno saputo e sapranno giustificare con una ricollocazione storica del dono dei comandamenti da parte di Dio a Mosè. La storia viene in soccorso al bisogno, e pure la natura e la sua compagna razionalità, benché, come si è cercato modestamente di mostrare, niente affatto a buon diritto.

martedì 11 marzo 2008

Homo omnipotens deus

Il titolo, va da sè, intende essere sarcastico. L'uomo aspira a farsi dio benchè spesso non sia in grado neppure di salvaguardare la sua stessa natura d'uomo. Dall'essere umano si dipartono per ogni dove (in questo senso si allude al concetto di onnipotenza e non certo perchè essa possa darsi integralmente e tutta in una volta in un medesimo soggetto) direttrici di potenza cui è affidato il gravoso compito di tacitare l'angoscia che offre la consapevolezza della fragilità. Per accorgersene è sufficiente osservare l'atteggiamento degli uomini nei confronti dei bambini e dei morti. E' stato autorevolmente affermato che il concepimento risponde soprattutto ad un desiderio di soddisfare la propria volontà di potenza e di garantirsi un'immortalità nella progenie e ciò basterebbe a scandalizzare gli intelletti e ancor più i cuori degli stolti; ma possiamo vedere all'opera la potenza umana anche nelle amorevoli cure che la nostra specie riserva ai piccoli: quanto spesso anche un genitore si diletta ad affermare il proprio arbitrio sul figlio sentendosi peraltro autorizzato a farlo in quanto più forte piuttosto che più autorevole? E non voglio dire che gli ordini imposti debbano essere per forza illegittimi, piuttosto che la vera radice di essi non è la responsabilità o la giustizia o quel sentimento che chiamano amore ma il bisogno di affermare una potenza: la propria. E non si sottovaluti il compiacimento che coglie coloro che assistono al pianto di un bimbo: quale godimento sorge dalla condizione inerme del debole!
Passiamo all'altra, a mio parere, evidente espressione della ricerca di potenza da parte dell'uomo: quella che si serve dei morti. Se chi scrive non vede ciò che non può vedersi perché non c'è, è possibile affermare che in coloro che prendono parte a delle esequie, specialmente se non profondamente coinvolti dalla mestizia della circostanza, è riscontrabile un senso di potenza per l'essere ancora vivi, per la possibilità di poter seppellire un proprio simile e in definitiva per la momentanea illusione, segnata da una speciale ebbrezza, di sentirsi meno mortali.
Tralascio di parlare della relazione di potenza che il sano instaura con il malato perché spesso in essa è prevista la controindicazione del fastidio, quando non dell'autentica sofferenza, che il primo deve tollerare, la quale rende meno chiara e piacevole la sorgente della potenza.

lunedì 10 marzo 2008

De profundis

Esordisco con un tema quanto mai filosofico, pur non trattandolo in modo profondamente filosofico per non venir meno alle dichiarazioni di propositi fatte in via di presentazione. Il tema in questione, la morte , esprime nel più alto grado la potenza del negativo e pertanto andrebbe considerato per sè, ma alla considerazione dei nostri simili assai spesso, ahinoi, tale potenza sfugge. Dove ricercarne le cause? Naturalmente soprattutto nella religione cristiana (in questo caso le differenze tra le varie confessioni che vedono in Cristo il Signore del mondo è a mio avviso trascurabile), che nel proporre un'illusione fa un torto alla realtà della morte che vuole mascherare. Eppure, proprio al cospetto di un nostro simile che spira la dottrina cristiana dovrebbe cedere alla luce non tanto della ragione, ma del più comune buon senso, cosa peraltro assai rara tra gli uomini. Si pensi al rito funebre cristiano: i richiami alla vita eterna di cui può godere il fratello che ci ha lasciati sono continui; la speranza nella sua beatitudine celeste viene dichiarata fino ad essere resa certezza, tuttavia le persone che hanno amato il defunto sono giustamente disperate: nella disumanità della negazione delle ragioni del dolore si estingue l'umanità di un'illusione di immortalità che dovrebbe lenire quell'irrimediabile dolore. Quanto è atroce la religione che proclama di offrire speranza! E quale danno procura al pensiero, cui viene sottratto un oggetto come la morte! Essa non può essere meditata nella sua terribile naturalità, non può farsi pensiero ed è invece condannata a rimanere straziante sentimento per chi perde una persona cara, angosciante sensazione per chi si appresta a non vedere più la luce del sole.
Ma le ragioni di un oblio della potenza del negativo non sono, a mio parere, tutte da attribuire al frequentemente nefasto influsso del cristianesimo sulla nostra cultura (naturalmente il suo influsso non è sempre così negativo): la stessa natura gioca in favore di un suo oblio. E' naturale che l'uomo tenda a sfuggire ai limiti che gli sono imposti ed è naturale che cerchi di sottrarsi al difficile compito che la consapevolezza di quel limite esige da lui: ossia la ricerca di un significato autentico per la propria esistenza, di un senso che non sia offerto dal fluire quotidiano del tempo che stordisce l'intelletto degli stolti e dei savi. Il non senso avanza le sue pretese a dispetto di religioni e filosofie. Dicevamo delle responsabilità da attribuire alla natura dell'uomo in merito, ma quando la natura degenererà cosa dire? Mi permetto di sollecitare la vostra riflessione ricorrendo alle esperienze che ho potuto fare in occasione degli ultimi funerali cui ho preso parte: il valore della morte è ormai trascurato non solo a livello di profonda riflessione ma anche nell'esperienza per così dire superficiale che se ne può fare. Ho partecipato a due cortei funebri che attraversavano brevemente le vie di piccoli centri urbani e in entrambi i casi, non solo i conducenti delle auto che attendevano che il corteo finisse di attraversare una strada non spegnevano il motore, ma, quasi a voler spronare le persone a fare in fretta acceleravano come se fossero disposti sulla griglia di partenza di un gran premio. E guai a muovere rimproveri nei confronti di simili pie e splendide intelligenze, se ne avevano certe risposte! Ed ancora, è così difficile fare a meno delle conversazioni al telefonino durante un corteo funebre o mentre si tumula un morto? Spostamento e comunicazione avvinghiano l'uomo e ne fanno un fruitore accanito e per ciò stesso qualcosa meno di un uomo, qualcosa di più di un canarino.
Spero che le mie ultime considerazioni non vengano assunte come moralistiche e del resto se così fosse presto qualche post di questo blog potrebbe gettare una luce sinistra sulla moralisticità (ebbene sì, in questo blog si possono trovare anche le maleparole) del sottoscritto. Inoltre, in generale, è mio auspicio che tutte queste mie povere riflessioni trovino un'accoglienza generosa tra i miei lettori, che so fedeli e soprattutto numerosi, sebbene probabilmente non abbiamo mantenuto ciò che avevano promesso.

Presentazione

Un caro saluto a coloro che vorranno generosamente dedicare un po' del loro tempo alla lettura di queste povere cose che mi riprometto di proporre di tanto in tanto alla vostra riflessione. Il presente blog non ha la pretesa di dirsi filosofico e forse qualcuno se ne dorrà ma è prudente non pretendere da intelletti deboli che durino fatiche tra le vette tanto impervie del pensiero; piuttosto esso raccoglierà considerazioni di svariato tipo su politica, società, umana miseria e, ma solo episodicamente, anche sugli studi che compio in ambito universitario. Infine una comunicazione di servizio che non vuole affatto avere valore di un ringraziamento: il blog deve la propria seppur misera esistenza al molesto incitamento di due colleghi, peraltro forse amici, Tempio e Dell'Ombra, i quali mi hanno indotto a compiere l'ardita impresa (a Polimeni devo invece fraterni consigli sull'opportunità di talune operazioni realizzabili mediante un blog).