venerdì 31 ottobre 2008

Il silenzio dei sapienti

Propongo qui al lettore delle considerazioni, che malgrado la loro evidente banalità, cionondimeno non riescono a guadagnare il consenso di larga parte degli uomini. Poeti e pensatori hanno versato fiumi di inchiostro sul valore della vita e sulla felicità di cui all'uomo è concesso di godere e talvolta si è pure giunti a vedere quale grande acquisto è per l'uomo venire al mondo. Il vedere la luce in preda al pianto, evento che riguarda tutti, ha suggerito per esempio l'opportunità di leggere in esso il segno di una necessaria infelicità nel destino dell'uomo. Tuttavia ritengo che non è indispensabile fare appello agli inizi per identificare la natura dell'esistenza; molto di più può, o meglio, potrebbe dichiarare l'esperienza di chi la vita non la deve ancora vivere, bensì la vive già o l'ha già quasi interemente lasciata alle proprie spalle. Se solo si concedesse parola ai sofferenti, agli infelici che penano per ogni sorta di inimicizia stretta con loro da parte della natura e degli uomini suoi terribili figli! Il problema sta proprio qui: quanti sono coloro che hanno conseguito una conoscenza adeguata della vita e della sua ferocia che hanno la forza morale e la salute per esprimere il loro odio per essa? Davvero pochi e quando osano svelare l'arcano i sani, additando qui con tale termine anche il presunto vigore dell'intelletto che giammai per loro deve farsi consigliare dal quotidiano soffrire, pena la perdita della sana oggettività, vengono deliberatamente ignorati o compatiti per la loro sorte, che si vuole considerare individuale nella persona e limitata per circostanza nello spazio e nel tempo. La ragione del risentimento provato dai sani e dai felici nei confronti di chi sente, pena e perciò pensa e che solo di rado può essere celato dalle cure amorevoli prestate nei loro confronti risiede tutta qui.
E con la profusione del risentimento dei vigorosi il seme dell'infelicità può continuare ad essere sparso con generosità su questa amara terra. Quell'atto che si vuole d'amore, trova nel suo contrario il suo principale movente; il desiderio di potenza espresso dalla filiazione non è che una maschera ed una reazione a quel sentimento di colui che è risentito. Ma non contenti di una sola maschera, gli uomini ne aggiungono di altre e di più belle.

venerdì 17 ottobre 2008

Sulla gerarchia

Prendendo vago spunto da un qualche punto del non misero blog di una conoscente (www.ossidia.it), mi provo come autore di invettive contro coloro che, vili, abusano della loro posizione nella gerarchia per sopraffare il prossimo. Naturalmente, non si fraintenda, l'elemento gerarchico è indispensabile o quanto meno assai utile all'interno delle più svariate specie animali, compresa quella più sciagurata di tutte, in quanto la più incompleta e meno evoluta, affinchè i singoli membri di esse non si sbranino a vicenda, tuttavia si vuol qui dar conto della perniciosità di talune sue espressioni. Fedeli ad un taglio estremistico e si spera anche radicale del presente blog, si prenderà in considerazione soprattutto una delle forme più primitive della gerarchizzazione, trascurando a bella posta quelle che sono venute fuori da un'elaborazione lunga e prodigiosa da parte della nostra bella civiltà: la gerarchia nei corpi armati.
Sono poche le occasioni in cui meglio che non in seno ad un esercito ci si può avvedere della brutalità degli uomini che occupano una qualche posizione in una gerarchia. Tale brutalità è seconda solo al grado di miserabilità che contrassegna chi, superiore al sottoposto, gonfia il petto e dispone della vita dei suoi uomini come di una collezione di farfalle ma al contempo, sottoposto nei confronti dei propri superiori, cede con supina quando non con compiaciuta rassegnazione alle loro angherie. Poste simili condizioni, mi si conceda l'inciso, non può sorpendere che gli eserciti costituiscano delle macchine da stupro: godere della sottomissione dell'inerme, in questo caso, è ben più importante che soddisfare un bisogno fisiologico a lungo insoddisfatto e se poi si verifica quella terribile condizione in cui al senso di onnipotenza dello stupratore si congiunge il compiacimento di aver obbedito ad un ordine del proprio superiore quell'arma di stupro di massa che è l'esercito diviene inarrestabile, come dimostrato in Bosnia. Con ciò si è solo voluto dare un esempio di quanto nell'uomo la malvagità e l'assenza di ogni riguardo nei confronti dei propri simili possa esprimersi a partire da due direttrici apparentemente opposte, vale a dire sadismo e masochismo, per convergere subito verso un unico abisso di abiezione.
Prendendo invece in considerazione il regime nazista e le sue fiere che si nascondevano dietro le sembianze di omuncoli, non deve sfuggire che esso era un apparato militare cotruito per tempi eccezionali non certo di pace. La stessa struttura del partito era militarizzata in ogni ordine della sua gerarchia e sappiamo con certezza che coloro che ordinavano e facevano uccidere senza pietà gli avversari e gli oppositori erano degli imbelli agnellini al cospetto di un proprio capo. Mirabile potenza del Führerprinzip! Lo stesso Göring, secondo della gerarchia fino a pochi giorni prima della caduta degli idoli, ebbe a dichiarare che quando si entrava nella stanza di Hitler se ne poteva poi uscire, se solo il capo lo voleva, con la convinzione di essere una ballerina. Taluni di questi uomini che credevano di essere stati forgiati per comandare una stirpe eletta ma che non potevano fare a meno di obbedire furono capaci di non sconfessare la propria natura sino alla fine, come confermato tristemente da quell'episodio che potrebbe assurgere a chiusura simbolica di un'epoca: l'avvelenamento dei figli da parte dei coniugi Goebbels. Il ministro, che non intendeva vivere in un mondo non dominato dal proprio capo, coerentemente non volle rinunciare neppure a esercitare il proprio potere di vita e di morte sui figli: ancora una volta il duplice polo del comando, subito e imposto, che si condensa in un'unica posizione della gerarchia, ha mostrato la sua potenza.
Al nobile scopo di non tediare ulteriormente il lettore mi limito a proporre quest'appendice che segue, la quale, al di là delle profonde riflessioni che l'hanno preceduta e che dovevano servire come specchietto per le allodole, ha il compito di far riflettere anche colui che ripone la maggior fiducia nei confronti di quei particolari corpi armati che sono le sedicenti forze dell'ordine. I cronisti, con nostra somma fortuna, si degnano ancora di riportare notizie riguardo ai soprusi perpretati in nome o dietro una divisa ma io, cedendo alle più meschine tentazioni autobiografiche, vi faccio dono della conoscenza di alcuni orrendi misfatti che io stesso in persona ho avuto la ventura di subire qualche anno fa. Ecco i fatti, il cui racconto il resoconto che segue non ha la pretesa di esaurire: trovatomi a difendermi per via legale e recatomi allegramente nella caserma del mio natio borgo selvaggio, piuttosto che essere accolto con garbo e cordialità, mi ritrovo giocosamente deriso e in verità non per la prima volta. Ciò che tuttavia mi induce a riportare proprio questo episodio della mia saga e non altri è però la natura tragica del mio contendente, il quale non era colui da cui ricevetti minacce e carezze a calci e pugni, come sarebbe stato lecito attendersi, bensì, miei candidi lettori, colui che avrebbe dovuto opporre la propria virile autorità ad una cotale irriguardosa condotta nei miei confronti. Il tale in questione era proprio un bel carabiniere, poco più brutto di quelli che si vedono nelle serie televisive finanziate dal ministero della Difesa o dell'Interno e poco meno arguto. Nella scala gerarchica neoplatonica dell'Arma presiedeva e tuttora degnamente presiede il livello dei brigadieri (ma tra un po' correggerò un'inesatezza). Quando costui dovette arrendersi all'infelice evidenza che non avevo alcuna intenzione di ridere delle sue prese in giro o in alternativa di andarmene chiedendo scusa di non aver accettato calci e pugni come un vero siciliano sa fare e io, per la verità, venni in soccorso della sua intelligenza rendendo palesi le mie intenzioni con un "io non ho dimenticato che lei è amico di un certo Antonigno Cucurucucù (un altro tale che voleva picchiarmi e che in quella caserma era stato difeso come accennerò poi brevemente) e se continua con questo comportamento sarò costretto a presentarmi al comando di Catania", ebbi in risposta di stare attento a quello che facevo perchè lui era Piersilvio D'Agora, brigadiere scelto della Repubblica italiana. Quel che conta è che l'esemplare in oggetto proferì il tutto all'apparenza tronfio di sè ma ad un'attenta osservazione percorso da un tremore che tradiva un gran timore. In quell'occasione il vostro eroe fu capace di dar vita, nello stesso luogo (un'inelegante stanza per carabinieri), nello stesso momento e financo nello stesso individuo, vale a dire il Piersilvio di turno, ad un'epifania di sadomasochismo: quell'uomo tanto forte era anche tanto debole e tenero da doversi giustificare facendomi vedere il codice penale e da tacere riverente allorquando gli è stato obiettato che non vi era alcun reato che mi si potesse ascrivere. Ma ancor di più, ad esser seri, conta il fatto che per poco il D'Agora, oltre al dichiararsi brigadiere scelto (ecco la precisazione promessa) della Repubblica italiana, si trattenne a stento dal rivelarmi che era anche vicecapocondomini con delega alle saracinesche, il che comunque solo per un soffio, a mia volta, mi trattenne dall'obiettargli che per me avrebbe fatto lo stesso se fosse stato tenente colonnello scartato della Repubblica democratica del Congo. Per raccontarla tutta, il vigoroso contendere si concluse solo con la presenza di un avvocato, che indusse il battagliero brigadiere scelto della Repubblica italiana ad operare una manovra di piegatura a non meno di sessanta gradi.
Altre appassionanti vicende si legano numerose a quell'episodio ma mi limito a raccontarne solo un'altra per dimostrare che tra le virtù dei carabinieri, non di tutti se è vero che cinquecentottantadue per quattrocentocinquntasei è uguale a duecentosessantacinquemilatrecentonovantatre, non vi è solo quella del coraggio impavido di fronte all'esposizione di fatti pur obiettivi che potrebbero inchiodare ad una condanna penale ma anche quella che rimanda al dono profetico. Ecco che cosa me lo fece capire: qualche giorno dopo che mi premurai di portare l'indirizzo di casa di quel famigerato Antonigno Cucurucucù ad un altro carabiniere, però stavolta di tutt'altro livello ontologico essendo egli un maresciallo di un qualche grado, che senza quella precisa indicazione si era detto, mentendo ma a fin di bene, che non poteva procedere nell'indagine, ricevetti in risposta da quest'altro splendido esemplare che non esisteva alcun Antonigno Cucurucucù. Ci si chiederà dove risiede la prova del dono profetico e io rispondo che sta nel fatto che di lì a qualche tempo il figlio tanto amato dalla mamma e dal papà sarebbe spirato perchè una malvagia pasticca buona per del sano divertimento avrebbe voluto rendere vani i tentativi dei cavalieri dall'uso spregiudicato dell'indicativo e cui sempre ignoto fu l'uso del congiuntivo di sottrarlo a un processo (per la galera, si sa, in Italia non c'è speranza).
Lascio ai lettori la morale della favola, che non sosta molto lontana dalla considerazione che vi posso irretire, fosse stata questa anche l'ultima volta, nella lettura di cose apperentemente interessanti per poi costringervi a conoscere le mie sciagure.