domenica 5 luglio 2009

Contra amicitiam

Amicitiam nisi inter malos esse non posse. Espresso l'assioma, tutto ciò che ne consegue è un descensus ad infimi. Ai protagonisti dell'amicizia, ovvero a coloro che stipulano quel contratto contraddistinto dalla particolarità di consistere nella vendita di colui stesso che lo stipula, dovrebbe essere sempre concesso magnanimo il perdono, così come va fatto con coloro che non sanno quel che fanno. Sì, l'amicizia è cosa spregevole assai e, più ancora, irritante, chè a disprezzarla le si conferisce un'importanza immeritata, ma non si può serbare rancore contro coloro che si fanno irretire da essa perchè questa caduta nell'insidia è quasi sempre frutto non di deliberata sentenza ma piuttosto dell'inerme quanto inconsapevole ondeggiare tra una sponda e l'altra, naturalmente una migliore dell'altra, in cerca di qualcosa che illuda di non star giocando da soli ad esser vivi. Da tale necessitato e inconsapevole andar per flutti discende l'illegittimità di ogni duro rimprovero in direzione di chi contrae amicizia, di qualsiasi legame essa si sostanzi e qualsiasi oggetto essa abbia. Si accetta quel che si trova e si convince se stessi che si è trovato un tesoro, neanche se si fosse trafugato quello del tempio, azione che fuor di metafora costuituirebbe comunque atto più pregevole, se non altro perchè segno di schietta empietà, che, è inutile dirlo, un amico di una qualsiasi risma non sarebbe in grado di compiere perchè alieno da ogni purezza e chiara distinzione. L'amico è sempre compromesso con qualcuno o qualcosa e non conosce sentimenti definiti; egli ha un legame, vincoli e relazioni che ne inquinano l'animo e lo scaraventano in un abisso di indistinzione spirituale. Guai a definirsi e a sporgersi su quel baratro offerto dallo spaventevole principio di individuazione: l'amico ama il branco, per fortuna ordinariamente costituito da mammiferi. Tuttavia talvolta accade che esso sia costituito da forme protozoiche, sebbene possano ingannare le dimensioni volumetriche di taluni soggetti in questione. Iersera, a puro titolo d'esempio e solo per offrire una gustosa digressione rispetto al nostro rigoroso impianto argomentativo, circondato da buone conoscenze (nel senso che ne conosco a dovere la miseranda attitutidine a contrarre il morbo di cui finora si è discettato), ho dovuto affrontare un esemplare che nonostante il volume, a voler avere riguardo per quell'oziosa attività intellettuale che è la tassonomia, si attestava filogeneticamente ad uno sviluppo biologico avente tutti i caratteri del protozoo. Sono stato al cospetto del prototipo archetipico dell'amica in cerca di amicizie e che a tale scopo esordisce nella sua presentazione cercando in maniera pretestuosa superfici di contatto tra lei e lo sciagurato altro, forse perfino nel tentativo, certamente vano quanto insolente, di trovare spazi di sovrapponibilità dei distinti piani su cui quelle superfici giacciono. Se poi un degno dis-amico come il sottoscritto, a quanto pare l'unico in questa regione della galassia a tenere in adeguato pregio l'ostilità e lo sprezzo per l'uguale o meglio per quello che nell'amicizia si vorrebbe uguagliare, si mette in capo di rispondere per le rime a colei che ha l'ardire di difendere un vecchio amico dalle accuse mossegli da quello che sarebbe diventato altrimenti un nuovo amico e se costei pone mano al proprio proposito argomentando che essendo l'accusato un suo amico non è verosimile l'accusa di cui è fatto oggetto, allora ecco che l'amicizia rivela tutti i propri caratteri più esecrandi. Cosa più grave ma anche scenograficamente più attraente, in un crescendo di miserabilità tutta umana, se non fosse che l'amicizia riesce a rendere gli umani qualcosa d'altro e di più ignobile, tanto più che regala la sensazione di elevare chi si prostra al suo indegno altare, sicuramente non buono per gli empi quanto lo è invece per sciatti fornicatori da sagrestia, l'amica cerca di difendere l'amico e con lui se stessa, prima offrendo il tipico sorriso poco sorvegliato per celare all'avversario dialettico di trovarsi in difficoltà, poi querulando di non aver avuto la possibilità di controbattere e infine ricorrendo all'evitamento positivo: la fuga, l'unica cosa intelligente che potesse mettere in opera. Ingrata, forse sarà stata incalzata dal disamico in maniera retoricamente troppo efficace e sicuramente insostenibile per le sua dotazione cerebrale e la sua costituzione pulsionale, ma se questo è successo è perchè le si voleva impedire di rendersi ulteriormente ridicola con pseudoargomenti analoghi a quelli spumeggiantemente già offerti.
Un cenno merita anche l'amica dell'amica, sentitasi in dovere di prendere le parti del protozoo carenato: naturalmente, nonostante la pur ammessa legittimità delle accuse del disamico, questi non aveva alcun diritto di lagnarsi, a tal punto che solo con sufficienza ha dichiarato che evidentemente ciò che gli era successo con l'amico dell'amica l'aveva toccato molto. A ciò si aggiungano i rimbrotti sulla presunta mancanza di signorilità e di virilità del disamico, accuse che da soggetti provenienti da determinati ambiti culturali ci si deve aspettare con buona disposizione d'animo: subisci, taci e sarai un signore; se poi osi stigmatizzare errori sintattici compiuti da chi esordisce con la dichiarazione di appartenenza ad una specifica scuola sei proprio abietto; all'amicizia e alle sue vittime tutto è dato connettere fuorchè gli elementi del discorso.
E che dire delle "buone conoscenze"? Il Polimoenus, venale e non prodigo com'è, ha colto la palla al balzo per ritenere estinto il debito della pizza da offrire perchè il disamico aveva creato scompiglio e solo perchè pietosamente implorato si degnava di ordinare una bottiglietta d'acqua per il disamico, poi però parzialmente tracannata da lui stesso come del resto è aduso fare quando offre qualcosa ad amici, parenti e contendenti; il Tempio invece gridava a pieni polmoni che lui, vereconda verginella che sa guardare solo di sottecchi tanto è pudica, non si era mai sentito così in imbarazzo in vita sua quanto in quei momenti di furente contesa tra il disamico e l'amica. Tuttavia il migliore prototipo di amico tra tutti quelli iersera presenti e quindi, come è vezzo dell'interessato stesso dire, il peggiore è l'innominabile miserabile che non rinuncia a nessuna amicizia. Egli è più di un singolo (non parliamo di individui viste le premesse esposte sopra in merito alla figura teoreticamente intesa dell'amico): è il popolo tutto che tra l'inerme e l'aguzzino, tra Cristo e Barabba, tra Trovato e il parcheggiatore sceglie sempre il secondo termine della coppia. Egli è colui che non rinuncia a prendere le parti di donzelle indifese, soprattutto quando queste sembrano disposte a concedere i loro favori e quantunque (sempre per avere il giusto riguardo per la tassonomia biologica) siano ascrivibili alla sottofamiglia dei bovini (in ispecie vacche e vaccazze) purchè siano le miss del tavolo o talvolta della sezione del tavolo in cui egli siede: tanto estesi sono i confini del suo sguardo, della sua estetica, quindi della sua teoretica (non parliamo di etica perchè gli è ignota la distinzione tra giusto e ingiusto, da lui saviamente sostituita da quella tra pubblico e privato) che essi sono ben lungi dall'abbracciare l'orbe terracqueo, così come invece si confarebbe ad un disamico, che se è capace anche di disprezzare è perchè il suo sguardo si posa in maniera globale su più punti, talvolta perfino di piani diversi dello spazio umano. Con il prototipo dell'amico vana è ogni lamentela: il sempre sospirar nulla rileva. Vana è la speranza che il sacerdote entusiasta (1) di una trista religione similfacebookiana ponga mente ad un mutamento di orizzonte spirituale.
Quale allora il destino per questa inquieta e inquietante, non di rado molesta figura dell'epoca contemporanea costituita dal disamico? Accerchiato dagli amici, in potenza e in atto, così come in effetto e in difetto, si vede costretto ad incedere come un angelo collerico con le spade incrociate per aprirsi il passo anche tra le buone conoscenze. Quale la sua escatologia? Forse che sia raggiungibile quello stadio definito di animicizia, in cui il disamico depone le armi ormai consapevole, oltre che con l'intelletto anche con il cuore (inteso in nessun'altra maniera che quale somma di due ventricoli e due atri), che l'umanità costituisce degno oggetto di attenzione etologica poco più che il verme ma molto meno del passero (2)?
(1) Vale a dire etimologicamente "divinamente ispirato".
(2) Nessuno avrà capito che il riferimento al verme e al passero è dovuto alla loro esistenza solitaria, di cui l'amico stoltamente non vuole sapere nulla, ma non fa nulla.

giovedì 18 giugno 2009

In viso veritas vel de luxuria

Il vero è il bello. Forse l'intelletto comune di fronte a tutti gli enti vede il mondo?(1) L'intelletto filosofico, senza tema di opporsi a quello comune, deve essere in grado di vedere dietro ciò che ci è dato (das Gegebene), vale a dire il fenomeno volgare, ciò che dà (der Geber ma anche es gibt), ossia l'essere stesso. Se il vero è l'intero (das Wahre ist das Ganze), va da sè che solo la totalità può essere conforme ad una risposta alla domanda di verità, che è tutt'una con l'esigenza di bellezza. La totalità si dà come mondo e l'essere che si nega l'apertura al mondo, con ciò stesso, si costringe, povero di mondo com'è, nella gabbia dell'ambiente, che conviene all'animale più che all'uomo, il cui compito è quello di allentare il morso del corto guinzaglio della rilevanza biologica.
L'intelletto filosofico deve rivolgere la propria calma attenzione al viso, ciò solo che è visto, visum, come purtroppo ancora sfuggiva ai parlanti di lingua latina, ma non a noi, avveduti interpreti di mondi che puzzano ormai di cadavere. Quel luogo di raccolta del bello, per dirla con espressioni ancora debitrici di una superficiale impostazione metafisica, oggetto privilegiato e soggetto esclusivo dell'autentico vedere, l'"io vedo", risiede nel volto che si volge all'oggetto. Lo sguardo rivolto ad un viso rivela quel momento estetico, che analogamente a quello musicale, costituisce una vibrazione in grado di accordare tutto ciò che tocca. Prendendosi gioco di tutti i rozzi falsi ammiratori della bellezza che non possono sottrarsi all'azione del palpare e tastare un singolo elemento del corpo o anche più elementi in successione, così come fa il medico con il corpo morto (Körper) del paziente pur vivo, lo sguardo dell'autentico esteta tocca tutto in forza di quella vibrazione e così facendo non tradisce la propria originaria affinità con la sensazione (aisthesis), anzi la estende e la rende compiuta e, oseremmo dire, globale. Quale oscuro affetto logico si insinua nel frugare agitato delle mani dell'anatomista, avversario dichiarato dell'esteta! In esso la luce sfugge alla vista rendendola cieca alla trasparenza, incapace di abbeverarsi alla fonte dello stupore (thaumazein). La conoscenza del come prevale su quella del da dove, uno spirito modellato sul paradigma tecnico-scientifico impoverisce il moto della genuina curiosità.
Platonismo, e della peggior specie! Esclameranno sdegnosi i lettori. No, quello qui in corso è un osanna alla lussuria (altre volte in questo blog si è incitato ad essa, come nel post natalizio, la cui lettura o rilettura raccomando "caldamente", come è il caso di dire). Il lussureggiare delle forme umane, il loro sussistere rigogliose a dispetto, anzi in forza, di una stabilizzazione delle forme fetali, il pertinace viziamento dell'uomo che aggira le leggi della fitness darwiniana e con essa l'ultimo residuo di teleologismo, cui si accompagna un qualche principio di utilità, sono evidenti al massimo grado proprio nella trasformazione del muso animale nel volto ingentilito dell'uomo e ancor più in quello della donna. E' qui che la lussuria ha pieno corso, come del resto anche nell'abnorme crescita della materia cerebrale: allora come si può accusare l'esteta, che, nella selezione del proprio partner, presta attenzione a ciò che il viso e il cervello di questo offre, di cedere a dettami ascetici essendo egli con tutta evidenza un amante della lussuria? Questa non può certo essere indentificata con elementi come il seno, la forma che eccedendo la forma la deforma, i quali esercitano la loro attrazione giocando essenzialmente sul principio dell'utilità del suo adoperarsi. Piuttosto non possono trascurarsi l'inutilità lussuriosa e lussureggiante dell'evitamento positivo costituito dal linguaggio verbale, o meglio dalla sue concreta espressione nella voce, che costituisce un'ulteriore presa di distanza dal dato biologico e fisico più triviale: con essa l'essere uomo tocca tutto senza tangere alcunchè; sublima la sua forma. Ma se queste rigorose argomentazioni non hanno ancora convinto il lettore meno avveduto, offriamo un ultimo incontestabile argomento affinchè appaia evidente che qui non si propaganda un' ascesi di alcun tipo nè tantomeno un qualche disprezzo per il corpo. Quella fetalizzazione delle forme, che ci sentiamo di benedire, si sostiene in un processo di mutuo rafforzamento, anche sul piano simbolico, tra due poli solo apparentememente irrelati: i genitali femminili e il viso di entrambi i sessi. La stabilizzazione al livello fetale della posizione dei genitali della donna nella zona subcaudale consente alla coppia umana di copulare face-à-face. La sessualità è potuta finalmente diventare visione.
Si diceva all'inizio che il viso è ciò che dà (es gibt), spieghiamo ora meglio in quale senso. L'espressione tedesca testè ricordata vale anche come l'italiano "c'è" o "ci sono", quindi come indicatore di esistenza. Non può passare inosservato che il defunto nella bara viene spesso coperto integralmente dal duro legno ad eccezione del volto, a mostrare ciò che fino alla fine si dà da vedere finchè qualcuno c'è in una presenza che sta per assentarsi per sempre. Coperto il volto, l'individuo infrange il vincolo con l'essere.
Ma quali sono i pericoli che l'esteta corre a parte quello della derisione ad opera dei più abietti fornicatori e autori di ogni impudicia nel novero dei quali si trovano non pochi dei nostri lettori? Egli, in quanto attore dell'autentica lussuria, è colui che più di tutti si espone al pericolo della disinibizione, dell'eccedenza pulsionale, in altre parole, nessuno più di lui rischia di soccombere alla mania. La verità dell'uomo autentico, dell'esteta, è quella ricchezza di mondo di colui che sfugge alle sbarre della gabbia ambientale e si impoverisce di inibizioni. Il destino dell'essere capace di verità è la condizione di colui che fallendo nel proprio essere animale si è fatto mostro, la sua maledizione è la bellezza.
(1) Le riflessioni che qui seguono (ma sono sicuro che la quasi totalità dello stoltume che costuituisce i miei lettori si sarà avveduto della nota solo alla fine) sono il frutto di un trasparente fraintendimento di posizioni di pensatori quali Bolk, Sloterdijk, Heidegger e altra compagnia allegra e che prese nel loro originario contesto avevano un senso e una dignità che io mi sono ripromesso tenacemente di togliere loro.

mercoledì 13 maggio 2009

Cave canem

Interrompo il non del tutto inopportuno lungo silenzio proponendo al lettore un dettagliato e ragionato resoconto di recentissime esperienze dell'Autore. Martedì 12 maggio, sopraffatto dalla sete di giustizia e da un irremovibile moto della volontà, mi sono deciso a non remunerare con il non dovuto il parcheggiatore più degno di piazza Dante. Verità esige che non rimaniate all'oscuro del gustoso antefatto che risale ad un paio di settimane fa: quel nobile moto di ribellione contro l'inveterato sopruso, ad onor del vero, fu benignamente destato da un diniego del quanto mai vile parcheggiatore in questione. Avesse egli continuato a limitarsi a chiedermi denaro quando avessi trovato posto per la mia auto avrei potuto anche chiudere un occhio, ma avendomi quel tipo impedito di parcheggiare perché doveva riservare diversi posti ai professori la mia indignazione non poteva essere repressa ancora una volta.
Ebbene, decisomi a non pagarlo, non contavo mica di averla fatta franca, perché in un'altra occasione, anni fa, non disponendo di monete, non avevo potuto dargli quel che esigeva ed egli mi aveva dato ad intendere che la mia insolenza non era passata inosservata facendomi trovare alzato il tergicristalli della mia auto. Questa volta mi ha raggiunto nel cortile della facoltà, ma quella figurina non ha avuto neanche il tempo di dir nulla che gli ho espresso la mia intenzione di non voler parlare con lui, di non volerlo vedere davanti a me e di non volerlo pagare, nè in quel momento nè in futuro. Intimidito come non mai, attingendo al suo repertorio di furfantello non ha potuto fare altro che dire che era venuto a cercarmi solo per chiedermi perché al suo saluto, quella mattina, non avevo risposto. Naturalmente colui che ha per consuetudine in cotanto spregio il saluto quanto Giuda la fedeltà al Cristo di Dio non aveva alcuna tenera intenzione di salutarmi o di capire che cosa poteva giustificare un mio eventuale mancato saluto, ma il sottoscritto lo aveva stordito per bene. E devo ammettere a tal punto che il Dell'Ombra, testimone della scena insieme alla sorella (sicuramente più saggia e giusta del fratello), non ha esitato a prendere le difese del parcheggiatore, credendo di dover distribuire salomonicamente meriti e torti tra i due contendenti; ma questo novello Salomone non si è avveduto di aver diviso le porzioni con il senso della giustizia rappresentato non dalla bilancia di Atena, bensì da quella truccata del fruttivendolo sottocasa. Il nostro retto giustiziere, valutando il tono della mia voce e la presunta corrività del mio linguaggio, non riusciva a capire che il sopruso da me subito, la vile intimidazione patita sin nel più intimo recesso della mia isola felice, costituita da quel luogo che tuttavia non posso che assimilare ad una cloaca, erano qualcosa di intollerabile che giustificava la mia reazione non priva di pathos. Che cosa avrebbe preteso quell'educanda del Dell'Ombra? Sappiate che fatico a non ridere nello scrivere che il novello Salomone, di fronte all'inerme parcheggiatore, ha avuto la temerarietà (si intende, da un punto di vista teoretico e non morale) di muovermi il seguente rimprovero: "Smettila, non puoi trattare le persone in questa maniera!". Al che io, con la lucidità che contraddistingue i miei giudizi antropologici, ho risposto senza tema alcuna di errare: "Ma questi sono cani che meritano solo legnate!" Tuttavia in quella circostanza neanche il più esemplare rigore delle mie argomentazioni poteva scardinare le posizioni teoriche, certamente non prive di conseguenze negative nel dominio della prassi, dell'ingenuo amico, fedele fino alla soggezione al corollario secondo cui bisogna mantenere la forma anche quando si subisce il più orrendo dei misfatti, altrimenti si passa dalla parte del torto; corollario che discende con una qualche coerenza dal postulato secondo cui non ci si può allontanare mai dalla rigida distinzione tra interiorità e apertura alla dimensione pubblica. Certamente coloro che tra voi conoscono quella bizzarra e a tratti inquietante figura del Dell'Ombra riusciranno a vedere perspicuamente nei detti corollario e postulato l'impronta caratterizzante del suo intero corpus dottrinario e forse saranno in grado di capire financo come quelli facciano il paio soprattutto con la dell'ombriana aurea teoria dell'"impossibilità teoretica della coppia", se non altro per un'analoga coerenza logico-formale e per la quasi inconfutabilità delle loro conseguenze teoriche che li accomuna.
Ma torniamo al resoconto degli eventi, che sono tutto, come è vero che il Sein si dà essenzialmente come Ereignis. Il centro del nostro narrare e meditare deve rimanere il parcheggiatore abusivo, che trova un briciolo di dignità ontologica esclusivamente nel fatto che abusiva è l'esistenza tutta di tutti noi viventi mentre un discorso differente andrebbe fatto per le forme di esistenza inanimata (ma guardiamoci dal conferire al presente post una qualche dignità filosofica, chè gli Ereignisse in questione la rifuggono). Quando finalmente mi sono degnato di concedere un pur marginale spazio di replica all'inerme parcheggiatore, le mie incredule orecchie hanno dovuto sentire che per quattro anni mi era stato concesso (sic!) il posto per la mia auto e la mia mordace lingua si è vista costretta a dire che nessuno può concedermi alcunchè perché ad alcuno è dato il dominio sul suolo pubblico. Allorchè il confronto dialettico è proseguito pervenendo ad un'altezza retorica all'inizio insospettata e insospettabile e ciò per merito esclusivo del mio avversario, che ad un certo punto proruppe così: "In piazza Dante tutti sono a rischio di verbale; vabbene, tu non mi paghi e io non ti vengo a chiamare quando vengono i vigili urbani!". Così facendo si guadagnò la seguente risposta da parte mia: "Ma tu chi sei? Forse l'intercessore tra i vigili, l'autorità costituita, e il comune cittadino?". Tralasciamo le scontate riflessioni sociologiche che si potrebbero desumere dalla dichiarazione di generalizzata insicurezza che persiste secondo il nostro amato parcheggiatore, alfiere, a quanto pare, di ciò che da decenni la sociologia definisce la società dell'emergenza, creata dai potenti per tenere sotto scacco la psiche delle masse, e che l'occhio del lettore il cui sguardo non si arresta pigro poco distante dal proprio naso saprà sicuramente vedere in prospettiva come il preambolo di una futura società dell'urgenza (da cosiderarsi come intentio fenomenologicamente intesa verso il cesso) e piuttosto consideriamo che il parcheggiatore non è stato più in grado di riprendersi dalla heideggeriana Heimatlosigkeit ("spaesatezza": lo scrivo soprattutto per quell'indotto teorizzatore della dottrina dell'impossibilità teoretica della coppia) che lo ha vinto al sentire la parola "intercessore", da lui probabilmente connessa etimologicamente, sulla scia dell'opera di Isidoro di Siviglia, con il gruppo lessicale che ruota intorno alla radice "cesso".
Alla fine, tutto è bene quel che finisce bene sebbene tutto sia male quel che inizia: un nuovo è più efficace inter-cesso-re (la sapienza linguistica di chi individua in questa parola la radice "cesso" è qui dimostrata dal fatto che l'individuo cui accenno è riconosciuto, seppure un po' imprecisamente dal punto di vista tecnico, come bidello e quindi cultore del gabinetto) ha convinto il mio avversario a sloggiare, probabilmente facendogli notare che si era messo contro un povero idiota senza arte nè parte. Ma che cosa avrei potuto pretendere di più? Siamo in Italia e mi sono pure dovuto sorbire la seguente degna riflessione del mio salvatore: pagare cinquanta centesimi al parcheggiatore è meno ingiusto di pagare di più per parcheggiare sulle strisce blu; praticamente la messa in forma della giustizia non secondo la nozione di legittimità bensì secondo quella del danno maggiore ai miei personali interessi senza considerare minimamente che remunerare un parcheggiatore abusivo significa beneficare un delinquente nelle sue attività private o nel suo essere parte di una organizzazione criminale più vasta mentre pagare il comune, in linea teorica, equivale a dare il proprio contributo alla comunità. Se con il novello Salomone eravamo di fronte alla giustizia rappresentata dalla bilancia truccata del fruttivendolo sottocasa, in questo caso siamo al cospetto della messa in opera della giustizia posta in effigie nella bilancia del fruttivendolo ambulante che dispone la scadente mercanzia sulla propria ape motorizzata.
Ma la tensione morale del mio post non ha ancora raggiunto il suo culmine. Che dire dei grandi manovratori? Che cosa conferisce ai parcheggiatori abusivi il potere di imporre l'estorsione a tutti noi, potere prima di tutto morale e solo in secondo luogo pratico? In altri termini, quale pastoia morale impedisce al parcheggiatore di uscire fuori dal prorio recinto di ignoranza e cecità e giungere alla chiara e distinta comprensione di chiedere ogni giorno l'elemosina ad ognuno di noi, visto che esemplari come lui non esplicano alcuna funzione sociale se non quella di renderci chiaro quanto noi esseri normali siamo superiori a certo fondo di bottiglia? La responsabilità di tutto è dei docenti che danno la paghetta mensile o settimanale a quei brutti ceffi. L'ibridazione antropologica tra le due sottospecie è del resto evidente nell'avvicinamento del linguaggio e del pensiero degli uni a quelli degli altri; ma forse gli uni non sono mai stati distinti dagli altri e certi rudimenti biologici di alcuni docenti, come consistenti mazzi di chiavi e marsupi, si possono spiegare solo quale eredità, per l'appunto biologica, di tempi apparentemente trascorsi.
In conclusione (era ora, avrà sospirato il paziente lettore, che ormai boccheggiava e/o sbadigliava), errai, candido Dell'Ombra, assai gran tempo e di gran lunga errai, per parafrasare la palinodia dell'amato e venerato Leopardi, che avrebbe ridicolizzato magistralmente i vizi e i costumi presenti dei siciliani e degli italiani tutti come fece con quelli dei suoi contemporanei, comunque migliori dei nostri, se non altro perché non sono più. Sì, errai, ma non perché dimostratomi ingiustamente irriverente nei confronti dell'in-(v)erme, considerato che non gli ho mica ricordato da quale utero era stato partorito e che nonostante ne abbia parlato con te, seppure in sua presenza, con intento neutralmente definitorio, come di un cane cui infliggere bastonate non l'ho nemmeno toccato, essendo io non ancora versato nella regale arte della lotta col bastone, piuttosto perché quel giorno la mia eloquenza è venuta meno lasciando che mi impappinassi in più momenti. Perché capiscano anche i tonti: nella presente era geologico-metafisica dell'impossibilità della morale, di ogni morale, e del prevalere della tecnica, il mio unico rammarico è di aver parzialmente fallito al livello della tecnica. Ad ogni modo, da martedì avrò sempre da temere qualche ritorsione e in pochi difenderanno colui che, invece di essere considerato a buon diritto un impavido eroe sprezzante del pericolo (di quel pericolo sempre presente quale oggetto del pensiero che solo si può fregiare degnamente di questo nome, per dirla con echi nietzscheani), nel migliore dei casi verrà considerato un povero idiota, nel peggiore un insopportabile distruttore delle tradizioni più sacre, in quello pessimo tutte e due le cose precedenti più il fatto di essere un rompiballe da circo. Pertanto il mio motto, d'ora in poi, dovrà essere prudentemente: cave canem.

domenica 29 marzo 2009

L'anno compiuto

Il compleanno è occasione, poco importa di cosa, molto più rileva per che cosa. I festeggiamenti relativi al compimento dell'anno sono pressocchè universalmente diffusi nel cosiddetto dominio della civilizzazione ma il loro significato rimane nascosto a coloro che si danno da fare per festeggiare. E si danno da fare sul serio, giacchè di impegno si tratta, benchè l'elemento d'automa non manchi quasi mai. Si sarebbe anche tentati di affermare più benevolmente che piuttosto che di qualcosa di automatico, cioè di naturale decaduto a meccanico, si tratti di qualcosa di cosmologicamente ritornante, come la descrizione, appunto anche annuale, delle orbite degli astri, ma purtroppo è allora che una saggia e impietosa lucidità interviene per restaurare i vecchi proponimenti: non si elevi al piano universale ciò che riguarda il più misero particolare. L'universo ha ben poco a che fare con le ridicole vicende dell'individuo, sia esso anche un pianeta, pensiamo un piccolo impasto di carbonio e acqua impura. Cionondimeno questi urla per farsi sentire: è nato e non è ancora passato sotto il dominio dei vermi. Il suo più franco desiderio è quello di allontanare il più possibile da sè la soglia del trapasso e tuttavia festeggia se un anno è già trascorso. Non esiste uomo retto; retto sarebbe quell'uomo che guardasse dritto davanti a sè, senza fermarsi alla stazione annuale e sereno di fronte al suo destino mortale si abbandonasse ad esso senza precipitarvisi, ma nel tentativo di far retto quest'essere si rischia di vederlo spezzato.
Ma come festeggia nella nostra porzione di mondo colui che in verità non avrebbe nulla da festeggiare, perchè sebbene voglia egli rallegrarsi non di aver visto trascorrere un anno bensì di essere sopravvissuto ad esso gli sfugge che ad un sopravvissuto è più adatto il tirare un sospiro di sollievo e non la baldoria? Come accennavamo prima, da automa. Il canovaccio è sempre lo stesso: ci si ingozza con roba immangiabile nella quotidianità benignamente illuminata dalla lucidità, si beve robaccia perchè così impone l'augurio, si sosta di fronte a dispositivi che impressionano e registrano le degne effigi di festeggiati e festeggianti (tanto oggi tocca a me ma ricordati che domani tocca pure a te) e non si riesce a fare a meno di dire le tradizionale sciocchezze del caso. Quante volte le orecchie devono sentire frasi come "esprimi un desiderio!", "sei un anno più vecchio", "sarà un anno migliore" (preso in prestito dal capodanno, ormai onnipresente nella nostra società dell'eterno incominciamento quasi quanto il carnevale)? Basterebbero queste espressioni di stupidità verbale ben fondata al livello della fisiologia cerebrale che solo per non conferire un'immeritata tragicità alla faccenda non si definirà "patologia" per comprendere quanto sciocco è l'uomo che festeggia il compimento annuale. In primo luogo si afferma chiaramente che è opportuno esprimere un desiderio (quasi si minaccia il malcapitato per convincerlo ad obbedire o gli si lascia intendere che è uno stupidotto se si lascia sfuggire l'occasione per farlo) e ci si dimentica che non c'è desiderio senza insoddisfazione, ma allora si dovrebbe trarre sicura la conclusione che non c'è molto da festeggiare. Sulla seconda frase sarebbe ozioso dire anche solo una parola di più commentandosi da sè in bocca a chi vuole prima di tutto vivere; sulla terza si dischiude un mondo di senso: come fa colui che festeggia ad individuare saccentemente una teleologia retta sul miglioramento progressivo delle vicende umane circoscritte ad una persona in particolare? Le vecchie teleologie, anche quelle religiose, avevano più dignità, considerato il fatto che almeno si scomodavano i fini per l'umanità intiera o per una sua parte considerevole; adesso invece esse collassano sull'individuo singolo. Miseranda umanità: più diventa insostenibile sul piano teoretico la nozione di individuo e più il volgo se ne appropria facendola brillare della luce caratteristica della bigiotteria. Ma tornando diligentemente al nostro discorso, perchè codesti festaioli, se sono così sicuri del fatto loro, avvertono il bisogno di sperare in un anno migliore se sono già in una condizione in cui è legittimo far festa?
La verità, o quantomeno la menzogna più vera, è che invero nessuno desidera festeggiare l'anno compiuto, dacchè il compimento di una qualsiasi cosa è anche la sua morte in una cosa nuova e il misero volgo intende tenersi lontano da essa come si guarda bene di stare in pace, ossia di non vivere come sa. Ma questo rimarrà occultato nell'esistenza del singolo per molti anni compiuti.

martedì 10 marzo 2009

Tragedia, commedia e farsa

Niente di più stolto dell'uomo, se non il padre, che ha generato il figlio. Questo e quello, comunque, se cedono al desiderio di riflettere sulla consistenza delle loro esistenze finiscono per connotare come tragica la vita. Che si indugi quanto si voglia sulla tragicità del nascere e sulla necessità del morire, cose in fin dei conti tanto simili che solo il dolore può assumersi il compito di separare, mai però per più di qualche decennio nello stesso uomo, tuttavia la veste tragica costituisce solo la nobile maschera per qualcosa di meno dignitoso. L'uomo che ostinato cerca di sfuggire all'amara verità della propria poco fastosa condizione agisce come il condottiero che butta lo scudo per lasciare il campo di battaglia per entrare nel lupanare che non dista mai più di qualche passo dal teatro della guerra. Ecco che cosa offre la realtà da cui si intende distogliere lo sguardo: un po' dietro il proscenio della rappresentazione tragica ha luogo la scena; è qui allestita la commedia. Ma non è neanche in questo luogo che si esprime la vita dell'uomo, giacchè questa può essere qui, come ancora più anteriormente sul proscenio tragico, soltanto rappresentata ma non agìta e vissuta. L'azione che sostanzia l'esistenza dell'uomo è quella che si dà nella farsa del dietro le quinte. Guerre, ingiustizie, nascite e morti, sofferenze e gioie non possono esibire alcuna valida ragione per la loro comparsa sulla scena, tanto meno sul proscenio: non sono fatte per la luce della ribalta; vivono dell'Immotivato per sè. Individuare una trama causale per conferire loro razionalità è intenzione poco retta e financo disonesta.
Per non cedere il passo all'eccessiva genericità adduco solo un paio di esempi concreti avvalendomi anche di un video su una dichiarazione di Adolf Hitler. Egli, ritenuto spesso l'emblema del male tragico, costituisce tuttavia a ben guardare un valido esempio della natura farsesca della storia. Natura meno che comica appalesata da un soltanto maldestro tentativo di comicità dell'imbianchino prestato all'oratoria politica:

Certo, gli attenti osservatori delle faccende italiane di questi anni potrebbero obiettarmi che al confronto della sciagurata situazione attuale del nostro Paese tra il '33 e il '45 del secolo scorso, in Germania, si assistette a una tragedia con tanto di opportuno finale, il suicidio del protagonista, mentre da noi un comico da osteria sproloquia indefesso e indisturbato mentre la resistenza civile è affare dei comici di professione, ma tutto ciò non fa che confermare che siamo al rovesciamento farsesco proposto dai tempi nel Paese dalle tradizioni più avanguardiste e sperimentali al mondo. In fin dei conti il cabarettista da birreria ebbe come capocomico un italiano. Del resto la supposta tragicità del Reich tedesco ne risulterebbe immiserita se solo si pensasse che un regime militare come quello nazista veniva dominato da un semplice caporale. La guerra venne diretta da un caporale: questo potette vantare il secolo che si ritenne più accentuatamente tragico. Rimane il fatto che, in passato come oggi, la situazione italiana funge da lente di ingrandimento per la comprensione dell'umanità planetaria: sotto la sua luce tutto è più chiaro.
Proposto l'esempio precedente forse non stupirà neanche la seguente argomentazione. Come non avvedersi della sostanza farsesca, non tragica e neppure comica, dell'esistenza umana quando non la natura infligge un duro colpo all'esistenza dell'uomo, bensì un altro uomo compie il cosidetto male senza esserne consapevole o, cosa di gran lunga più importante, senza sentire, senza avere percezione emotiva di ciò che compie? Nello stupro la vita di una persona viene distrutta, eradicata, eppure nell'animo dello stupratore solitamente non è presente la ferma volontà di annientare un'esistenza ma piuttosto si afferma in quella spregevole incoscienza l'indifferenza per la sorte dell'altro, che si rende oggetto di un gioco il cui divertimento si può presto dimenticare come ciò che di più accidentale si possa dare. Qui come in davvero pochi altri casi analoghi appare in tutta la sua evidenza la connotazione farsesca dell'esistenza. Dove è qui la lotta tra il bene e il male o tra il giusto e l'ingiusto, tra un eroe e un antieroe, appare forse un deus ex machina, si compie un'espiazione per un'azione compiuta?
No, di compiuto rimane solo il non senso.

venerdì 27 febbraio 2009

Il carnevale

L'iperbole si è fatta metafora: ciò che in tempi dignitosi era una tantum oggi è sempre e contro ogni necessità. Non si può più percepire alcuna esagerazione, piuttosto un'abitudine meccanica che vale come habitus inestirpabile quanto dannoso. Lo spirito carnascialesco pervade ogni dì della nostra esistenza, tentando così di respingere gli assalti del senso tragico, tuttavia non fa che elevare un baluardo di misera farsa: la commedia, ancor meno quella divina, è cosa assai lontana a vedersi. Il risultato più evidente è un miscuglio di mestizia, mancato controllo delle emozioni, assenza di scopi e scellerataggine senza freni, vale a dire ciò che di più significativo offre la festa del carnevale da qualche tempo a questa parte. I partecipanti avvertono il dovere di stare allegri, ma, tenendo il sentimento dell'allegria dietro al pensiero fisso e determinato di qualcosa, finiscono essi per perdere sin da subito la spensieratezza che converrebbe a chi dovrebbe abbandonarsi alla gioia. Quali uomini infelici coloro che si riprometteno di far baldoria prima della Quaresima! Si illudono di annegare nello stordimento del non senso le cause, peraltro tutte legittime e fondate, della loro tristezza e invece preparano a loro stessi un rimedio peggiore del male contro cui si vorrebbe combattere. Alla chiusura dei festeggiamenti è tutto un agitarsi di sensazioni di delusione, sempre sicura e generosa conseguenza di aspettative smisurate, irrequietezza e senso di panico, tipico di colui che nel buio ha perso la fioca luce dell'ultima lanterna che per un attimo ne aveva illuminato l'andare a tentoni.
Di vere maschere non si parla affatto, giacchè nessuno ha il coraggio di mettersi una maschera per coprire la propria bella faccia e ancor più il proprio animo sempre sospeso sul ciglio di un abisso di abiezione senza ritorno. Così, se è vero che non si dà persona che non sia maschera, si arguisce subito che a carnevale non si avvista neanche alla lontana una persona.
Qualcuno si ostina ancora a vedere nel carnevale la riemersione del dionisiaco o il ribaltamento della quotidianità ma quando la farsa segna ogni momento della vita sociale e la sfrenatezza si offre come il ritmo monocorde di un agire insensato e senza riguardi per nessuno, neanche per se stessi, e non rivolto ad una percezione globale e anindividualistica dell'esistenza ma piuttosto l'ultimo ed estremo tentativo di soffocare l'esistenza dell'altro allora non vi è posto per Dioniso o per rovesciamenti del mondo. Entrambi, del resto, non possono che cozzare con il bieco conformismo cui è asservito l'animo di coloro che festeggiano il carnevale dei tempi odierni: qualora il malcapitato di turno, tratto a forza nei festeggiamenti non di rado da amici o conoscenti infidi, si trovi nel turbinio dello stordimento non può sottrarsi ad esso ergendosi a spettatore disinteressato perchè insidiose figure, talvolta di uomo tal'altra di donna, lo costringono a concedersi al ballo o ad altre analoghe attività all'apparenza festose. Egli viene tacciato del crimine ritenuto più ripugnante: non volersi divertire. Non si concede spazio negli intelletti di quei festaioli all'ipotesi che sia più eccitante trovare trastullo con modalità altre. Che spasso agitare gli arti e magari anche il busto assecondando le melodie più eleganti diffuse da portentosi impianti stereofonici e il cui testo (qualora non indegno sia adoperare questo termine per l'insieme incoerente delle parole giustapposte alla musica in questione) costituisce qualcosa di più di un esplicito bombardamento subliminale a che si giaccia in coppia o in gruppo, il che , in quest'ultima soluzione, farebbe ancora più allegria! Ma niente paura! In queste circostanze si parte da propositi bellicosi, lo dico all'insegna dell'indissolubile coppia Ares- Afrodite, per non addivinire a niente: tutti hanno più paura del solito dell'altro e dell'altra. Si concepiscono più pargoli durante le giornate mondiali della proba gioventù cattolica. Ma per non discostarci molto dal tema sessuale, quale errore sarebbe sottovalutare l'emersione del prepotente desiderio maschile di indossare abiti femminili? A frotte non si fa che attendere il carnevale per potersi travestire da donne, per lo più nelle vesti di figure femminili quanto mai licenziose.
Ad ogni modo è giunta la Quaresima e la farsa torna ad essere, seppur di poco, meno intollerabile: chi non ha mai dovuto capitolare di fronte alle imposizioni materne i venerdì che precedono la santa Pasqua, quando ci si vede costretti a mangiar pesce piuttosto che carne e, fatto più grottesco che mai, in risposta alle proprie stringenti argomentazioni contro questa pratica penitenziale priva di senso ci si deve sentir obiettare che è peggio per noi se non vogliamo farci una bella mangiata di pesce? In verità, in verità, vi dico: la gente non vuol far mai autentica penitenza tanto quanto non vuole concedersi all'autentico divertimento.

lunedì 16 febbraio 2009

Die anthropologische Entartung o descensus ad animalia

Oltre a costituire un facile puntello alle vanità del vostro Autore, il duplice esotico titolo che fa bella mostra di sè qui sopra vuole dar conto di una triplice dimensione dell'essere umano. Ebbene sì, quanto segue potrà non avere una spina dorsale ma è tricipite, vantando peraltro tre belle teste: la prima tedesca, l'ultima latina e quella di mezzo, neanche a dirlo, italiana. Quando è in questione l'esplicitazione delle zone di latenza che avvolgono l'homo sapiens, soprattutto nella sua espressione più estrema e radicalmente inumana (il che, però, non equivale a dire sempre disumana) non ci si può astenere dall'aver commercio con la favella teutonica; allo stesso tempo, avvistata una qualche degenerazione, è quasi sempre opportuno metterla in forma per impedirne una pericolosa uscita dai contorni affidandosi alla medietà rigorosa della lingua di coloro che furono per lo più scrupolosi giuristi e non agitati pensatori (il contrario degli uomini di Alemagna). In un simile contesto interviene infine il compromesso, l'italiana disgiunzione che tutto coordina e quindi pacifica.
Dopo le oziose divagazioni, che non sono mai un fuggire dalla Cosa bensì un tenero girare attorno ad essa del corteggiatore, passiamo al dunque. L'oggetto in sè che getta una luce sinistra sui processi degenerativi in seno alla nostra specie, ciò che insinua nell'elemento antropologico una Enthartung, che porta a fare un passo indietro (Rückbildung) ad animalia, verso un abisso di amoralità in cui non si offrono più distinzioni tra il bene e il male, è costituito dal modus operandi dell'automobilista, del pedone, di colui che è preposto a dirigire il traffico e, andiamo sicuri alla radice della questione, di colui che anche solo respira nella serra catanese. Herder (un monito per i lettori, in particolare i meno diligenti: quando lo leggete, mi raccomando, pronunciatelo bene), il grande filosofo tedesco del Settecento che individuava nelle culture umane delle serre in cui la natura sviluppava le proprie figure in maniera protetta, oggi sarebbe stato posto di fronte all'inevitabilità di osservazioni che lo avrebbero condotto a funeste previsioni per la nostra sciagurata specie. Infatti si sarebbe avveduto di come le serre culturali, anzi la cultura in sè, non sono che l'estremo segmento di un percorso che da una pseudouscita da una natura ritenuta mancante conduce fino ad un'involuzione che non sarà arrestata sin quando una di quelle serre non sottrarrà l'ultima chance di respiro a chi le abita.
Ma ancora una volta la nostra discussione segue il perimetro della cosa e non la penetra. Affrettiamoci a rimediare e facciamolo con la brutalità richiesta dalla Cosa stessa (die Sache selbst). L'automobilista catanese o, per meglio dire, l'abitante del veicolo, non riesce ormai più a riconoscere nell'automobilista altro da sè, vale a dire nel suo avversario, un proprio pari, il che lo induce a ritenere legittimo fargli correre ogni rischio possibile, fino a quello estremo della morte. Ogni arma, tattica e strategia sono concesse e financo raccomandate: passaggio di incroci nonostante il semaforo imponga l'arresto della marcia, zig zag in strade non poco affollate di forme vitali di ogni genia, parcheggio selvaggio senza misericordia alcuna per coloro che non desidererebbero rimaner reclusi a domicilio per l'ostruzione del passo di casa e per quegli altri che vogliono ancora circolare dentro i loro veicoli per strada, mantenimento di un'andatura mirante a stabilire record di livello se non mondiale almeno olimpico. L'elenco, per un preciso imperativo morale, non può chiudersi qui ma le necessità dell'impianto argomentativo richiedono una sterzata su altre corsie (sempre con la massima imprudenza).
Occorre chiedersi se una tale intollerabile fenomenologia sia espressione di un occasionale e incoerente modo di agire del catanese o se piuttosto, a ben guardare, non si debba ricercare in un nucleo solido centrale l'origo et fons di questo orrendo andar per le vie. La risposta è che tutto ciò deriva dalla pertinacia con cui la natura opera nell'abitante di questi luoghi; in altri termini, urge una comprensione di una specifica ontologia regionale. E' nell'essere di colui che è frutto di una lunga evoluzione che in lui rivela se stessa che va trovata la quintessenza del suo più candido disprezzo per le unità finite a lui affini che stazionano nelle sue prossimità. Per l'abitante di questa ontologia regionale, a ben vedere, l'altro è meno che un nemico, neanche un avversario indegno, costituisce piuttosto un mero ostacolo. Questo è il pedone, questo l'altro automobilista, forse ancor meno che questo colui che dirige il traffico. Da tali autoevidenti principi teoretici che riconoscono la nullità dell'alterità discende l'etica più franca che si possa dare, quella espressa dalla celebre massima della sapienza antica: ego deus mi ipsi lupus tibi. L'idea è perfettamente legata alla prassi e di conseguenza quest'ultima non può essere sconfitta. Neanche una minima parte dell'incrollabile diffidenza che da essa nasce nell'animo di ognuno di colui che sulla strada indefesso lotta per una vittoria che mai sarà definitiva bensì breve come una svolta a destra può andar scalfita. L'accenno del rispetto di una qualche regola del codice stradale genera subito in chi ne è spettatore e fortunato beneficiario dubbio, diffidenza e l'atroce sospetto che un male peggiore si stia preparando: qualcuno più furbo dei furbi, secondo le modalità della più scaltra decettività, tende un'insidia che avrà il valore di uno smacco che non potrà essere vendicato. D'altronde, se quell'azione benefica e corretta sarà opera di un raro uomo dabbene si rivelerà in genere un unicum in quanto questi, vista la mancanza di gratitudine e il timore del beneficiato, si guarderà bene dall'essere nuovamente così moralmente audace. Ma ciò che più si afferma come segno rivelatore della degenerazione antropologica non è tanto da individuarsi nello scadimento morale del crudele automobilista, che, truce, cerca di intimidire l'ostacolo per impedirne l'anticipazione della mossa o che lascia passare il pedone solo se esso appare sotto le sembianze di un esemplare di età inferiore agli otto lustri, con abbigliamento che non nasconde molto e segnatamente le ghiandole mammarie, che devono presentarsi di non irrilevanti dimensioni.
Un analogo discorso si potrebbe fare anche per quella pur inquietante figura di pirata e corsaro che è il motociclista, mai domo, come del resto il conducente della forma tutta siciliana di motorizzazione che è l'ape, il quale, inscindibilmente dal veicolo che guida, costituisce un rudimento biologico da offrire generosamente allo studio e alle ricerche dei biologi di ogni contrada planetaria. Neanche l'indifferenza e l'indomita pigrizia di colui che ha il nome di vigile e la qualifica di nullafacente deve indurre a scorgere l'ultimo avamposto della degenerazione dell'uomo, anche se non si vuole trascurare che a quelle già pregevoli qualità morali egli aggiunge un'ineliminabile pusillanimità con l'automobilista medio e un ostentato coraggio che fa da degno orpello all'esibizione vuota di un'autorità senza alcuna autorevolezza di fronte a qualche inoffensiva e indifesa donzella. Più esattamente, l'intelligenza della questione antropologica in esame trova il suo segno distintivo più facile a trovarsi nella figura esistenziale del pedone: è in lui che si ravvede la più scioccante perdita di umanità, almeno nell'accezione di un'umanità che fa ancora parte del mondo animale. Egli non percepisce più il pericolo: ciò che sul piano evolutivo è il motore dell'esistenza e del suo schietto progresso viene a mancare. Neanche la vita è più degna di essere preservata dai proditori attacchi di quegli dei a se stessi e lupi al prossimo che già indegna la ritenevano. Una forma di esistenza che non brama di vivere è destinata ad estinguersi, segnatamente nell'ora dell'estremo periglio: all'uscita dei fanciulli dalle scuole, quando il caos cosmico collassa tutto intero nella serra catanese. A ciò potrebbero essere aggiunte riflessioni sparse a mo' di corollario ma ci si limiterà a dire in proposito solo quanto segue: il primato spaziale che viene corroso nella perdita della percezione del pericolo e quindi della distanza fa da pendant con la sempre più acuta incapacità di valutare gli spazi che vengono di volta in volta concessi all'individuo immerso nel traffico. Non si ha più una percezione precisa dello spazio per parcheggiare, per attraversare, per sorpassare: prevale l'indistinzione dell'essere-che-non-sa.
E' il vicolo cieco del cammino evolutivo, la confutazione di ogni sviluppo senza intoppi del suo percorso, la dimostrazione che è dall'elemento culturale che verrà il colpo mortale all'immortalità dell'uomo e, allo stesso tempo, che è la stessa natura che agisce e corrobora nei tentativi umani di uscire fuori di essa chiudendosi in serre preposte al compito.
Non si concede allora speranza? Prima di abbozzare una risposta e di aggirare le obiezioni del lettore, che già prevedo, puntualizzo che ogni mio riferimento alle teorie di Herder trova il proprio sostegno nella mia quasi completa ignoranza in merito alle dottrine del filosofo in questione e in un correlativo adeguato fraintendimento di quel poco che in proposito conosco. Buon pro mi faccia.
Andiamo alle speranze, che valgono quali illusioni. Qualcuno obietterà che almeno le donne possono offrire qualche ragione di speranza. Certo, talvolta mostrano maggiore umanità, ovvero quel contenimento dell'aggressività intraspecifica tipica degli altri mammiferi. Qui l'umanità sembra trattenersi in se stessa senza uscire fuori per entrare nella cultura- serra catanese, ma è una vittoria di durata brevissima, come quella del più spavaldo e feroce automobilista della città. Se la natura si attarda ancora nella donna lo è per poco: essa, sotto la forma della cultura, dispiega quanto appare ancora prevalentemente sotto la specie potenziale e, con la forza dell'emulazione da una parte e della necessità imposta da un immediato principio di sopravvivenza dall'altra, finirà presto per allontanare la donna dall'animale e consegnarla al dominio di quell'umanità, che a dispetto dell'onnipotenza percepita e vantata nel connubio con la macchina (non si trascuri il significato dell'identificazione, nel dialetto siciliano, dell'automobile con la macchina per eccellenza), non ha davanti a sè prospettive di successo.
L'homo sapiens guarda indietro al suo passato animale con sdegno, se deve indicare una sua degenerazione addita il ritorno in quel mondo andato, che è il mondo di una potenzialità positiva ormai preclusa, si dà al futuro ma la sua umanità lo chiude ad ogni orizzonte di un ad-venire. Si va indietro.

sabato 31 gennaio 2009

La pena nella vita

Una volta gettati nel mondo la tragedia vede il suo cominciamento. E lo vediamo pure noi. E' chiaro: solo noi uomini, dacchè all'animale non si dà comprensione sufficientemente compiuta di ciò che pur vive, sente e soffre. Con l'esistenza si sconta una pena; la pena che trova origine e ragione nello stesso nascere e staccarsi dall'unità del Reale. Il susseguirsi dei dolori, degli impietosi rovesci che la sorte propone e impone, la noia di colui che non sente o sente in maniera così acuta da soccombere disorientato di fronte allo svolgersi ludico dell'esistenza, le fatiche che il soggetto esige a se stesso per smorzare quei dolori, quella noia e per sfuggire al pericolo del non senso che questa porta generosa in dote, tutto ciò prevale sul piacere, isolato bastione nel deserto di un'esistenza senza vita. Certo, nelle piane del deserto anche una modesta casupola è visibile a chi ha smarrito la strada seguita dalla carovana e pure da lontano, cionondimeno tutto intorno rimane arido. Così, analogamente, il piacere, si concede all'occhio dell'uomo che, immerso nell'infelicità e financo nella disperazione, lo brama; la meta pare vicina ma rimane inaccessibile.
L'uomo non se ne avvede: la sera si abbandona al sonno senza riflettere che la giornata non ha offerto vere gioie ma tutt'al più fatiche non intollerabili che hanno distolto dalla mancanza di significato dell'esistenza che si prova a vivere. La meta è spostata sempre avanti: il bambino sogna di diventare ragazzo, questo vagheggia le gioie della vita da adulto non senza talvolta rimpiangere già il passato recente, nell'uomo maturo incomincia non di rado a prevalere il rimpianto sostanziato dal ricordo ma l'illusione non desiste ancora del tutto. Forse nemmeno l'anziano trova serenità, pur nella consapevolezza della propria infelice condizione, ma quella si concede solo al vecchio e per mere ragioni fisiologiche; il che equivale a dire che la serenità si concede senza ragione ma per istinto, o meglio per mancanza di istinto. La natura sembra qui sconfiggere se stessa e donarsi un po' di quiete. Lo stato dell'animo che nessuna saggezza proverbiale o da vecchia nonnina può concedere perchè ignora bellamente che il dolore, qualsiasi dolore, dolore rimane anche se pensato e trasformato in vero Pensiero; la solidità ontologica del dolore è inscalfibile e non costituisce alcun tesoro di cui fare esperienza: essa incide nell'Essere una ferita che mai può rimaginarsi, tantomeno nell'essere che sente e che pena.
Si verificheranno certamente delle eccezioni ma quanto rare! Si consideri solo il numero dei filosofi che sono riusciti almeno a morire felici, perchè se si cerca tra coloro che felici hanno vissuto lo scoraggiamneto è inevitabile. Affinchè un uomo possa provar piacere, il che, si badi bene, non significa ancora l'accesso ad una presunta possibile felicità, occorre che più fattori concorranno al lieto risultato: un sistema nervoso adeguato allo scopo, il benigno conforto della sorte e della storia. Ma probabilmente il nostro sistema nervoso non è fatto in maniera tale da poter accogliere e produrre piacere per un tempo sufficientemente lungo da dar luogo ad un pur breve stato di felicità. La memoria suggerisce al soggetto che ha la fortuna di trovare il piacere in un dato momento che l'esistenza non è solo piacere e lo abbandona al timore che esso presto cesserà. In altri termini, è l'identità stessa del soggetto e la continuità ontologica che esso costituisce a sbarrare ad esso le vie della percezione di un piacere duraturo, che solo mi sembra essere degno dirsi equivalente ad uno stato felice e beato. Ma non esclusivamente l'identità soggettiva rende impossibile la felicità bensì anche l'identità specifica: condividendo peraltro con ogni altra specie questo destino, la nostra memoria specifica esige che il ricordo del dolore si sedimenti in noi con maggior forza che quello del piacere, indipendentemente dalla frequenza con cui essi rispettivamente si presentano; è la logica della natura, la quale esige che alla specie come al singolo, in cui essa si esprime vitalmente, sia presente nella memoria ciò da cui deve rifuggire per continuare a sfuggire alla morte. L'esistenza senza vita va vissuta solo per sfuggire alla morte. Questa la raccomandazione della madre di parto di voler matrigna.

domenica 25 gennaio 2009

Riflessioni su fatti di cronaca con in allegato una postilla e un giudizio finale e conclusivo colorato emotivamente

I giornalisti si stanno dando un gran da fare per suggerire l'esistenza di un allarme sicurezza con particolare attenzione ai reati sessuali. Probabilmente, i casi registrati in questi giorni non fanno salire più di tanto la media mensile o annuale ma questo ha un'importanza relativa. Ciò che conta è che nel nostro Paese uno stupratore può godere degli arresti domiciliari per aver offerto una davvero generosa collaborazione agli inquirenti: confessare il reato dopo ventitrè giorni e solo dopo aver capito che il quadro indiziario era solido come un macigno. Nell'Italia degli indulti (una tantum) e dei patteggiamenti e dei riti abbreviati (ora e sempre, di grazia) una confessione val sempre uno sconto. E poi perchè non prendere in giro la vittima e la legge (la minuscola è d'obbligo) dichiarandosi pentito? Pentimento, gran bel sentimento lasciatoci in eredità dal Cristianesimo con tutto il corollario di facile vittimismo dell'aguzzino di turno (sic!), il quale, solo se costretto dagli eventi, mostra contrizione di fronte a Dio, al suo Dio, quello di chi ha stampato in fronte il marchio di Caino, e alla vittima. Naturalmente, se le informazioni offerte dai giornalisti sono corrette, il tale di cui dicevo poco sopra ha beneficiato degli arresti domiciliari anche perchè dettosi pentito. Certamente pentito sarà, ma di rischiare la galera (non più di un anno e mezzo di prigione e il resto tra arresti domiciliari e affidamento ai servizi sociali: tanto vale uno stupro; meno di una rapina in banca, a testimonianza che le cose valgono più delle persone): in queste settimane ha trascurato bellamente di offrire l'unico piccolo sollievo che poteva ormai concedere a colei che aveva seviziato, ossia presentarsi alle forze dell'ordine e vuotare il sacco. In un simile contesto suscita nausea anche il comportamento dei giornalisti e dei commentatori, tra i quali non si legge nessuna riflessione in merito alla falsità di questo pentimento. Gli stessi paladini dell'informazione che non esitano a dare tutti i particolari affinchè la vittima venga identificata da chiunque per poter concedere al pubblico l'occasione di soddisfare la propria morbosità non sono capaci di esprimere un giudizio articolato e si trincerano dietro la doverosa obbiettività della cronaca. Allora sorgerebbe spontanea la domanda: a che tanti operatori dell'informazione se poi tutti si limitano a vomitare ciò che battono le agenzie di stampa? Il tutto procede per dare l'illusione della libertà di informazione?
In quanti hanno levato grida di indignazione per i benefici concessi a qualcuno anchè perchè ritenuto "di buona famiglia"? Il riferimento alla famiglia, peggio ancora a quella buona che fa presto a diventare sacra. Niente di più vomitevole. La giustizia su differenti binari: se due individui commettono un medesimo reato il magistrato è autorizzato a prendere decisioni differenti benchè esso sia stato compiuto con analoghe modalità. Ancora più agghiacciante, se possibile, il livello a cui è arrivata o, non so ben dire, è ferma la mentalità degli uomini delle forze dell'ordine: colui che si è occupato delle indagini sullo stupro compiuto dal ragazzotto "di buona famiglia" ha dichiarato che questo bello esemplare "non è un criminale", adducendo a giustificazione della propria affermazione proprio la provenienza da una "buona famiglia", l'avere un posto di lavoro e perfino l'aver commesso il reato "solo" in preda ai fumi dell'alcol e della droga. Mi chiedo se questa genta sia superficiale o criminale: si dimentica pure che l'assunzione di alcol o droghe è un'aggravante e non un'attenuante. In quali mani siamo?
Siamo nelle mani di politici che con la loro non-azione legislativa costringono la magistratura a prendere provvedimenti sconcertanti. Siamo in balia di uomini di mero potere che hanno la spudoratezza di affermare che se si viene stuprati in campagna è anche colpa delle vittime e che sarebbe necessario un soldato per ogni bella ragazza. Lo Stato italiano non controlla il territorio, non esiste. Auctoritas, non veritas facit legem: da qui si capisca perchè non c'è legge in Italia. La deterrenza non ha alcun significato nel nostro Paese di brava gente. Del resto che cosa aspettarsi se il nostro diritto produce degli assurdi come quello di lasciare libero chi stupra perchè non idoneo a qualsiasi forma di detenzione, come successo qualche settimana orsono: se non si è idonei neppure alla detenzione come si fa ad essere idonei al vivere nel consorzio umano?
Piccola postilla su Craxi: a nove anni da ciò che la figlia ha detto essere stato un assassinio politico, il leader socialista non è più ritenuto un latitante morto all'estero per salvare la roba e sfuggire alle patrie galere ma un grande statista scomparso. Ancora una volta l'italiano non sa chi è il delinquente e chi la persona per bene. Ma non fa nulla.
Giudizio finale e conclusivo colorato emotivamente.
Considerato che coloro che dovrebbero occuparsi della protezione degli innocenti svolgono per lo più con superficialità il loro lavoro, preso atto che il fruitore di notizie è per lo più assetato di morbosità e una volta assunto che non si vedono allo stato percorsi per un miglioramento della situazione, non so che cosa dire sull'umanità ma degli uomini non posso che rimanere indignato della loro miserabilità.