Una volta gettati nel mondo la tragedia vede il suo cominciamento. E lo vediamo pure noi. E' chiaro: solo noi uomini, dacchè all'animale non si dà comprensione sufficientemente compiuta di ciò che pur vive, sente e soffre. Con l'esistenza si sconta una pena; la pena che trova origine e ragione nello stesso nascere e staccarsi dall'unità del Reale. Il susseguirsi dei dolori, degli impietosi rovesci che la sorte propone e impone, la noia di colui che non sente o sente in maniera così acuta da soccombere disorientato di fronte allo svolgersi ludico dell'esistenza, le fatiche che il soggetto esige a se stesso per smorzare quei dolori, quella noia e per sfuggire al pericolo del non senso che questa porta generosa in dote, tutto ciò prevale sul piacere, isolato bastione nel deserto di un'esistenza senza vita. Certo, nelle piane del deserto anche una modesta casupola è visibile a chi ha smarrito la strada seguita dalla carovana e pure da lontano, cionondimeno tutto intorno rimane arido. Così, analogamente, il piacere, si concede all'occhio dell'uomo che, immerso nell'infelicità e financo nella disperazione, lo brama; la meta pare vicina ma rimane inaccessibile.
L'uomo non se ne avvede: la sera si abbandona al sonno senza riflettere che la giornata non ha offerto vere gioie ma tutt'al più fatiche non intollerabili che hanno distolto dalla mancanza di significato dell'esistenza che si prova a vivere. La meta è spostata sempre avanti: il bambino sogna di diventare ragazzo, questo vagheggia le gioie della vita da adulto non senza talvolta rimpiangere già il passato recente, nell'uomo maturo incomincia non di rado a prevalere il rimpianto sostanziato dal ricordo ma l'illusione non desiste ancora del tutto. Forse nemmeno l'anziano trova serenità, pur nella consapevolezza della propria infelice condizione, ma quella si concede solo al vecchio e per mere ragioni fisiologiche; il che equivale a dire che la serenità si concede senza ragione ma per istinto, o meglio per mancanza di istinto. La natura sembra qui sconfiggere se stessa e donarsi un po' di quiete. Lo stato dell'animo che nessuna saggezza proverbiale o da vecchia nonnina può concedere perchè ignora bellamente che il dolore, qualsiasi dolore, dolore rimane anche se pensato e trasformato in vero Pensiero; la solidità ontologica del dolore è inscalfibile e non costituisce alcun tesoro di cui fare esperienza: essa incide nell'Essere una ferita che mai può rimaginarsi, tantomeno nell'essere che sente e che pena.
Si verificheranno certamente delle eccezioni ma quanto rare! Si consideri solo il numero dei filosofi che sono riusciti almeno a morire felici, perchè se si cerca tra coloro che felici hanno vissuto lo scoraggiamneto è inevitabile. Affinchè un uomo possa provar piacere, il che, si badi bene, non significa ancora l'accesso ad una presunta possibile felicità, occorre che più fattori concorranno al lieto risultato: un sistema nervoso adeguato allo scopo, il benigno conforto della sorte e della storia. Ma probabilmente il nostro sistema nervoso non è fatto in maniera tale da poter accogliere e produrre piacere per un tempo sufficientemente lungo da dar luogo ad un pur breve stato di felicità. La memoria suggerisce al soggetto che ha la fortuna di trovare il piacere in un dato momento che l'esistenza non è solo piacere e lo abbandona al timore che esso presto cesserà. In altri termini, è l'identità stessa del soggetto e la continuità ontologica che esso costituisce a sbarrare ad esso le vie della percezione di un piacere duraturo, che solo mi sembra essere degno dirsi equivalente ad uno stato felice e beato. Ma non esclusivamente l'identità soggettiva rende impossibile la felicità bensì anche l'identità specifica: condividendo peraltro con ogni altra specie questo destino, la nostra memoria specifica esige che il ricordo del dolore si sedimenti in noi con maggior forza che quello del piacere, indipendentemente dalla frequenza con cui essi rispettivamente si presentano; è la logica della natura, la quale esige che alla specie come al singolo, in cui essa si esprime vitalmente, sia presente nella memoria ciò da cui deve rifuggire per continuare a sfuggire alla morte. L'esistenza senza vita va vissuta solo per sfuggire alla morte. Questa la raccomandazione della madre di parto di voler matrigna.
L'uomo non se ne avvede: la sera si abbandona al sonno senza riflettere che la giornata non ha offerto vere gioie ma tutt'al più fatiche non intollerabili che hanno distolto dalla mancanza di significato dell'esistenza che si prova a vivere. La meta è spostata sempre avanti: il bambino sogna di diventare ragazzo, questo vagheggia le gioie della vita da adulto non senza talvolta rimpiangere già il passato recente, nell'uomo maturo incomincia non di rado a prevalere il rimpianto sostanziato dal ricordo ma l'illusione non desiste ancora del tutto. Forse nemmeno l'anziano trova serenità, pur nella consapevolezza della propria infelice condizione, ma quella si concede solo al vecchio e per mere ragioni fisiologiche; il che equivale a dire che la serenità si concede senza ragione ma per istinto, o meglio per mancanza di istinto. La natura sembra qui sconfiggere se stessa e donarsi un po' di quiete. Lo stato dell'animo che nessuna saggezza proverbiale o da vecchia nonnina può concedere perchè ignora bellamente che il dolore, qualsiasi dolore, dolore rimane anche se pensato e trasformato in vero Pensiero; la solidità ontologica del dolore è inscalfibile e non costituisce alcun tesoro di cui fare esperienza: essa incide nell'Essere una ferita che mai può rimaginarsi, tantomeno nell'essere che sente e che pena.
Si verificheranno certamente delle eccezioni ma quanto rare! Si consideri solo il numero dei filosofi che sono riusciti almeno a morire felici, perchè se si cerca tra coloro che felici hanno vissuto lo scoraggiamneto è inevitabile. Affinchè un uomo possa provar piacere, il che, si badi bene, non significa ancora l'accesso ad una presunta possibile felicità, occorre che più fattori concorranno al lieto risultato: un sistema nervoso adeguato allo scopo, il benigno conforto della sorte e della storia. Ma probabilmente il nostro sistema nervoso non è fatto in maniera tale da poter accogliere e produrre piacere per un tempo sufficientemente lungo da dar luogo ad un pur breve stato di felicità. La memoria suggerisce al soggetto che ha la fortuna di trovare il piacere in un dato momento che l'esistenza non è solo piacere e lo abbandona al timore che esso presto cesserà. In altri termini, è l'identità stessa del soggetto e la continuità ontologica che esso costituisce a sbarrare ad esso le vie della percezione di un piacere duraturo, che solo mi sembra essere degno dirsi equivalente ad uno stato felice e beato. Ma non esclusivamente l'identità soggettiva rende impossibile la felicità bensì anche l'identità specifica: condividendo peraltro con ogni altra specie questo destino, la nostra memoria specifica esige che il ricordo del dolore si sedimenti in noi con maggior forza che quello del piacere, indipendentemente dalla frequenza con cui essi rispettivamente si presentano; è la logica della natura, la quale esige che alla specie come al singolo, in cui essa si esprime vitalmente, sia presente nella memoria ciò da cui deve rifuggire per continuare a sfuggire alla morte. L'esistenza senza vita va vissuta solo per sfuggire alla morte. Questa la raccomandazione della madre di parto di voler matrigna.