venerdì 27 febbraio 2009

Il carnevale

L'iperbole si è fatta metafora: ciò che in tempi dignitosi era una tantum oggi è sempre e contro ogni necessità. Non si può più percepire alcuna esagerazione, piuttosto un'abitudine meccanica che vale come habitus inestirpabile quanto dannoso. Lo spirito carnascialesco pervade ogni dì della nostra esistenza, tentando così di respingere gli assalti del senso tragico, tuttavia non fa che elevare un baluardo di misera farsa: la commedia, ancor meno quella divina, è cosa assai lontana a vedersi. Il risultato più evidente è un miscuglio di mestizia, mancato controllo delle emozioni, assenza di scopi e scellerataggine senza freni, vale a dire ciò che di più significativo offre la festa del carnevale da qualche tempo a questa parte. I partecipanti avvertono il dovere di stare allegri, ma, tenendo il sentimento dell'allegria dietro al pensiero fisso e determinato di qualcosa, finiscono essi per perdere sin da subito la spensieratezza che converrebbe a chi dovrebbe abbandonarsi alla gioia. Quali uomini infelici coloro che si riprometteno di far baldoria prima della Quaresima! Si illudono di annegare nello stordimento del non senso le cause, peraltro tutte legittime e fondate, della loro tristezza e invece preparano a loro stessi un rimedio peggiore del male contro cui si vorrebbe combattere. Alla chiusura dei festeggiamenti è tutto un agitarsi di sensazioni di delusione, sempre sicura e generosa conseguenza di aspettative smisurate, irrequietezza e senso di panico, tipico di colui che nel buio ha perso la fioca luce dell'ultima lanterna che per un attimo ne aveva illuminato l'andare a tentoni.
Di vere maschere non si parla affatto, giacchè nessuno ha il coraggio di mettersi una maschera per coprire la propria bella faccia e ancor più il proprio animo sempre sospeso sul ciglio di un abisso di abiezione senza ritorno. Così, se è vero che non si dà persona che non sia maschera, si arguisce subito che a carnevale non si avvista neanche alla lontana una persona.
Qualcuno si ostina ancora a vedere nel carnevale la riemersione del dionisiaco o il ribaltamento della quotidianità ma quando la farsa segna ogni momento della vita sociale e la sfrenatezza si offre come il ritmo monocorde di un agire insensato e senza riguardi per nessuno, neanche per se stessi, e non rivolto ad una percezione globale e anindividualistica dell'esistenza ma piuttosto l'ultimo ed estremo tentativo di soffocare l'esistenza dell'altro allora non vi è posto per Dioniso o per rovesciamenti del mondo. Entrambi, del resto, non possono che cozzare con il bieco conformismo cui è asservito l'animo di coloro che festeggiano il carnevale dei tempi odierni: qualora il malcapitato di turno, tratto a forza nei festeggiamenti non di rado da amici o conoscenti infidi, si trovi nel turbinio dello stordimento non può sottrarsi ad esso ergendosi a spettatore disinteressato perchè insidiose figure, talvolta di uomo tal'altra di donna, lo costringono a concedersi al ballo o ad altre analoghe attività all'apparenza festose. Egli viene tacciato del crimine ritenuto più ripugnante: non volersi divertire. Non si concede spazio negli intelletti di quei festaioli all'ipotesi che sia più eccitante trovare trastullo con modalità altre. Che spasso agitare gli arti e magari anche il busto assecondando le melodie più eleganti diffuse da portentosi impianti stereofonici e il cui testo (qualora non indegno sia adoperare questo termine per l'insieme incoerente delle parole giustapposte alla musica in questione) costituisce qualcosa di più di un esplicito bombardamento subliminale a che si giaccia in coppia o in gruppo, il che , in quest'ultima soluzione, farebbe ancora più allegria! Ma niente paura! In queste circostanze si parte da propositi bellicosi, lo dico all'insegna dell'indissolubile coppia Ares- Afrodite, per non addivinire a niente: tutti hanno più paura del solito dell'altro e dell'altra. Si concepiscono più pargoli durante le giornate mondiali della proba gioventù cattolica. Ma per non discostarci molto dal tema sessuale, quale errore sarebbe sottovalutare l'emersione del prepotente desiderio maschile di indossare abiti femminili? A frotte non si fa che attendere il carnevale per potersi travestire da donne, per lo più nelle vesti di figure femminili quanto mai licenziose.
Ad ogni modo è giunta la Quaresima e la farsa torna ad essere, seppur di poco, meno intollerabile: chi non ha mai dovuto capitolare di fronte alle imposizioni materne i venerdì che precedono la santa Pasqua, quando ci si vede costretti a mangiar pesce piuttosto che carne e, fatto più grottesco che mai, in risposta alle proprie stringenti argomentazioni contro questa pratica penitenziale priva di senso ci si deve sentir obiettare che è peggio per noi se non vogliamo farci una bella mangiata di pesce? In verità, in verità, vi dico: la gente non vuol far mai autentica penitenza tanto quanto non vuole concedersi all'autentico divertimento.

lunedì 16 febbraio 2009

Die anthropologische Entartung o descensus ad animalia

Oltre a costituire un facile puntello alle vanità del vostro Autore, il duplice esotico titolo che fa bella mostra di sè qui sopra vuole dar conto di una triplice dimensione dell'essere umano. Ebbene sì, quanto segue potrà non avere una spina dorsale ma è tricipite, vantando peraltro tre belle teste: la prima tedesca, l'ultima latina e quella di mezzo, neanche a dirlo, italiana. Quando è in questione l'esplicitazione delle zone di latenza che avvolgono l'homo sapiens, soprattutto nella sua espressione più estrema e radicalmente inumana (il che, però, non equivale a dire sempre disumana) non ci si può astenere dall'aver commercio con la favella teutonica; allo stesso tempo, avvistata una qualche degenerazione, è quasi sempre opportuno metterla in forma per impedirne una pericolosa uscita dai contorni affidandosi alla medietà rigorosa della lingua di coloro che furono per lo più scrupolosi giuristi e non agitati pensatori (il contrario degli uomini di Alemagna). In un simile contesto interviene infine il compromesso, l'italiana disgiunzione che tutto coordina e quindi pacifica.
Dopo le oziose divagazioni, che non sono mai un fuggire dalla Cosa bensì un tenero girare attorno ad essa del corteggiatore, passiamo al dunque. L'oggetto in sè che getta una luce sinistra sui processi degenerativi in seno alla nostra specie, ciò che insinua nell'elemento antropologico una Enthartung, che porta a fare un passo indietro (Rückbildung) ad animalia, verso un abisso di amoralità in cui non si offrono più distinzioni tra il bene e il male, è costituito dal modus operandi dell'automobilista, del pedone, di colui che è preposto a dirigire il traffico e, andiamo sicuri alla radice della questione, di colui che anche solo respira nella serra catanese. Herder (un monito per i lettori, in particolare i meno diligenti: quando lo leggete, mi raccomando, pronunciatelo bene), il grande filosofo tedesco del Settecento che individuava nelle culture umane delle serre in cui la natura sviluppava le proprie figure in maniera protetta, oggi sarebbe stato posto di fronte all'inevitabilità di osservazioni che lo avrebbero condotto a funeste previsioni per la nostra sciagurata specie. Infatti si sarebbe avveduto di come le serre culturali, anzi la cultura in sè, non sono che l'estremo segmento di un percorso che da una pseudouscita da una natura ritenuta mancante conduce fino ad un'involuzione che non sarà arrestata sin quando una di quelle serre non sottrarrà l'ultima chance di respiro a chi le abita.
Ma ancora una volta la nostra discussione segue il perimetro della cosa e non la penetra. Affrettiamoci a rimediare e facciamolo con la brutalità richiesta dalla Cosa stessa (die Sache selbst). L'automobilista catanese o, per meglio dire, l'abitante del veicolo, non riesce ormai più a riconoscere nell'automobilista altro da sè, vale a dire nel suo avversario, un proprio pari, il che lo induce a ritenere legittimo fargli correre ogni rischio possibile, fino a quello estremo della morte. Ogni arma, tattica e strategia sono concesse e financo raccomandate: passaggio di incroci nonostante il semaforo imponga l'arresto della marcia, zig zag in strade non poco affollate di forme vitali di ogni genia, parcheggio selvaggio senza misericordia alcuna per coloro che non desidererebbero rimaner reclusi a domicilio per l'ostruzione del passo di casa e per quegli altri che vogliono ancora circolare dentro i loro veicoli per strada, mantenimento di un'andatura mirante a stabilire record di livello se non mondiale almeno olimpico. L'elenco, per un preciso imperativo morale, non può chiudersi qui ma le necessità dell'impianto argomentativo richiedono una sterzata su altre corsie (sempre con la massima imprudenza).
Occorre chiedersi se una tale intollerabile fenomenologia sia espressione di un occasionale e incoerente modo di agire del catanese o se piuttosto, a ben guardare, non si debba ricercare in un nucleo solido centrale l'origo et fons di questo orrendo andar per le vie. La risposta è che tutto ciò deriva dalla pertinacia con cui la natura opera nell'abitante di questi luoghi; in altri termini, urge una comprensione di una specifica ontologia regionale. E' nell'essere di colui che è frutto di una lunga evoluzione che in lui rivela se stessa che va trovata la quintessenza del suo più candido disprezzo per le unità finite a lui affini che stazionano nelle sue prossimità. Per l'abitante di questa ontologia regionale, a ben vedere, l'altro è meno che un nemico, neanche un avversario indegno, costituisce piuttosto un mero ostacolo. Questo è il pedone, questo l'altro automobilista, forse ancor meno che questo colui che dirige il traffico. Da tali autoevidenti principi teoretici che riconoscono la nullità dell'alterità discende l'etica più franca che si possa dare, quella espressa dalla celebre massima della sapienza antica: ego deus mi ipsi lupus tibi. L'idea è perfettamente legata alla prassi e di conseguenza quest'ultima non può essere sconfitta. Neanche una minima parte dell'incrollabile diffidenza che da essa nasce nell'animo di ognuno di colui che sulla strada indefesso lotta per una vittoria che mai sarà definitiva bensì breve come una svolta a destra può andar scalfita. L'accenno del rispetto di una qualche regola del codice stradale genera subito in chi ne è spettatore e fortunato beneficiario dubbio, diffidenza e l'atroce sospetto che un male peggiore si stia preparando: qualcuno più furbo dei furbi, secondo le modalità della più scaltra decettività, tende un'insidia che avrà il valore di uno smacco che non potrà essere vendicato. D'altronde, se quell'azione benefica e corretta sarà opera di un raro uomo dabbene si rivelerà in genere un unicum in quanto questi, vista la mancanza di gratitudine e il timore del beneficiato, si guarderà bene dall'essere nuovamente così moralmente audace. Ma ciò che più si afferma come segno rivelatore della degenerazione antropologica non è tanto da individuarsi nello scadimento morale del crudele automobilista, che, truce, cerca di intimidire l'ostacolo per impedirne l'anticipazione della mossa o che lascia passare il pedone solo se esso appare sotto le sembianze di un esemplare di età inferiore agli otto lustri, con abbigliamento che non nasconde molto e segnatamente le ghiandole mammarie, che devono presentarsi di non irrilevanti dimensioni.
Un analogo discorso si potrebbe fare anche per quella pur inquietante figura di pirata e corsaro che è il motociclista, mai domo, come del resto il conducente della forma tutta siciliana di motorizzazione che è l'ape, il quale, inscindibilmente dal veicolo che guida, costituisce un rudimento biologico da offrire generosamente allo studio e alle ricerche dei biologi di ogni contrada planetaria. Neanche l'indifferenza e l'indomita pigrizia di colui che ha il nome di vigile e la qualifica di nullafacente deve indurre a scorgere l'ultimo avamposto della degenerazione dell'uomo, anche se non si vuole trascurare che a quelle già pregevoli qualità morali egli aggiunge un'ineliminabile pusillanimità con l'automobilista medio e un ostentato coraggio che fa da degno orpello all'esibizione vuota di un'autorità senza alcuna autorevolezza di fronte a qualche inoffensiva e indifesa donzella. Più esattamente, l'intelligenza della questione antropologica in esame trova il suo segno distintivo più facile a trovarsi nella figura esistenziale del pedone: è in lui che si ravvede la più scioccante perdita di umanità, almeno nell'accezione di un'umanità che fa ancora parte del mondo animale. Egli non percepisce più il pericolo: ciò che sul piano evolutivo è il motore dell'esistenza e del suo schietto progresso viene a mancare. Neanche la vita è più degna di essere preservata dai proditori attacchi di quegli dei a se stessi e lupi al prossimo che già indegna la ritenevano. Una forma di esistenza che non brama di vivere è destinata ad estinguersi, segnatamente nell'ora dell'estremo periglio: all'uscita dei fanciulli dalle scuole, quando il caos cosmico collassa tutto intero nella serra catanese. A ciò potrebbero essere aggiunte riflessioni sparse a mo' di corollario ma ci si limiterà a dire in proposito solo quanto segue: il primato spaziale che viene corroso nella perdita della percezione del pericolo e quindi della distanza fa da pendant con la sempre più acuta incapacità di valutare gli spazi che vengono di volta in volta concessi all'individuo immerso nel traffico. Non si ha più una percezione precisa dello spazio per parcheggiare, per attraversare, per sorpassare: prevale l'indistinzione dell'essere-che-non-sa.
E' il vicolo cieco del cammino evolutivo, la confutazione di ogni sviluppo senza intoppi del suo percorso, la dimostrazione che è dall'elemento culturale che verrà il colpo mortale all'immortalità dell'uomo e, allo stesso tempo, che è la stessa natura che agisce e corrobora nei tentativi umani di uscire fuori di essa chiudendosi in serre preposte al compito.
Non si concede allora speranza? Prima di abbozzare una risposta e di aggirare le obiezioni del lettore, che già prevedo, puntualizzo che ogni mio riferimento alle teorie di Herder trova il proprio sostegno nella mia quasi completa ignoranza in merito alle dottrine del filosofo in questione e in un correlativo adeguato fraintendimento di quel poco che in proposito conosco. Buon pro mi faccia.
Andiamo alle speranze, che valgono quali illusioni. Qualcuno obietterà che almeno le donne possono offrire qualche ragione di speranza. Certo, talvolta mostrano maggiore umanità, ovvero quel contenimento dell'aggressività intraspecifica tipica degli altri mammiferi. Qui l'umanità sembra trattenersi in se stessa senza uscire fuori per entrare nella cultura- serra catanese, ma è una vittoria di durata brevissima, come quella del più spavaldo e feroce automobilista della città. Se la natura si attarda ancora nella donna lo è per poco: essa, sotto la forma della cultura, dispiega quanto appare ancora prevalentemente sotto la specie potenziale e, con la forza dell'emulazione da una parte e della necessità imposta da un immediato principio di sopravvivenza dall'altra, finirà presto per allontanare la donna dall'animale e consegnarla al dominio di quell'umanità, che a dispetto dell'onnipotenza percepita e vantata nel connubio con la macchina (non si trascuri il significato dell'identificazione, nel dialetto siciliano, dell'automobile con la macchina per eccellenza), non ha davanti a sè prospettive di successo.
L'homo sapiens guarda indietro al suo passato animale con sdegno, se deve indicare una sua degenerazione addita il ritorno in quel mondo andato, che è il mondo di una potenzialità positiva ormai preclusa, si dà al futuro ma la sua umanità lo chiude ad ogni orizzonte di un ad-venire. Si va indietro.