mercoledì 13 maggio 2009

Cave canem

Interrompo il non del tutto inopportuno lungo silenzio proponendo al lettore un dettagliato e ragionato resoconto di recentissime esperienze dell'Autore. Martedì 12 maggio, sopraffatto dalla sete di giustizia e da un irremovibile moto della volontà, mi sono deciso a non remunerare con il non dovuto il parcheggiatore più degno di piazza Dante. Verità esige che non rimaniate all'oscuro del gustoso antefatto che risale ad un paio di settimane fa: quel nobile moto di ribellione contro l'inveterato sopruso, ad onor del vero, fu benignamente destato da un diniego del quanto mai vile parcheggiatore in questione. Avesse egli continuato a limitarsi a chiedermi denaro quando avessi trovato posto per la mia auto avrei potuto anche chiudere un occhio, ma avendomi quel tipo impedito di parcheggiare perché doveva riservare diversi posti ai professori la mia indignazione non poteva essere repressa ancora una volta.
Ebbene, decisomi a non pagarlo, non contavo mica di averla fatta franca, perché in un'altra occasione, anni fa, non disponendo di monete, non avevo potuto dargli quel che esigeva ed egli mi aveva dato ad intendere che la mia insolenza non era passata inosservata facendomi trovare alzato il tergicristalli della mia auto. Questa volta mi ha raggiunto nel cortile della facoltà, ma quella figurina non ha avuto neanche il tempo di dir nulla che gli ho espresso la mia intenzione di non voler parlare con lui, di non volerlo vedere davanti a me e di non volerlo pagare, nè in quel momento nè in futuro. Intimidito come non mai, attingendo al suo repertorio di furfantello non ha potuto fare altro che dire che era venuto a cercarmi solo per chiedermi perché al suo saluto, quella mattina, non avevo risposto. Naturalmente colui che ha per consuetudine in cotanto spregio il saluto quanto Giuda la fedeltà al Cristo di Dio non aveva alcuna tenera intenzione di salutarmi o di capire che cosa poteva giustificare un mio eventuale mancato saluto, ma il sottoscritto lo aveva stordito per bene. E devo ammettere a tal punto che il Dell'Ombra, testimone della scena insieme alla sorella (sicuramente più saggia e giusta del fratello), non ha esitato a prendere le difese del parcheggiatore, credendo di dover distribuire salomonicamente meriti e torti tra i due contendenti; ma questo novello Salomone non si è avveduto di aver diviso le porzioni con il senso della giustizia rappresentato non dalla bilancia di Atena, bensì da quella truccata del fruttivendolo sottocasa. Il nostro retto giustiziere, valutando il tono della mia voce e la presunta corrività del mio linguaggio, non riusciva a capire che il sopruso da me subito, la vile intimidazione patita sin nel più intimo recesso della mia isola felice, costituita da quel luogo che tuttavia non posso che assimilare ad una cloaca, erano qualcosa di intollerabile che giustificava la mia reazione non priva di pathos. Che cosa avrebbe preteso quell'educanda del Dell'Ombra? Sappiate che fatico a non ridere nello scrivere che il novello Salomone, di fronte all'inerme parcheggiatore, ha avuto la temerarietà (si intende, da un punto di vista teoretico e non morale) di muovermi il seguente rimprovero: "Smettila, non puoi trattare le persone in questa maniera!". Al che io, con la lucidità che contraddistingue i miei giudizi antropologici, ho risposto senza tema alcuna di errare: "Ma questi sono cani che meritano solo legnate!" Tuttavia in quella circostanza neanche il più esemplare rigore delle mie argomentazioni poteva scardinare le posizioni teoriche, certamente non prive di conseguenze negative nel dominio della prassi, dell'ingenuo amico, fedele fino alla soggezione al corollario secondo cui bisogna mantenere la forma anche quando si subisce il più orrendo dei misfatti, altrimenti si passa dalla parte del torto; corollario che discende con una qualche coerenza dal postulato secondo cui non ci si può allontanare mai dalla rigida distinzione tra interiorità e apertura alla dimensione pubblica. Certamente coloro che tra voi conoscono quella bizzarra e a tratti inquietante figura del Dell'Ombra riusciranno a vedere perspicuamente nei detti corollario e postulato l'impronta caratterizzante del suo intero corpus dottrinario e forse saranno in grado di capire financo come quelli facciano il paio soprattutto con la dell'ombriana aurea teoria dell'"impossibilità teoretica della coppia", se non altro per un'analoga coerenza logico-formale e per la quasi inconfutabilità delle loro conseguenze teoriche che li accomuna.
Ma torniamo al resoconto degli eventi, che sono tutto, come è vero che il Sein si dà essenzialmente come Ereignis. Il centro del nostro narrare e meditare deve rimanere il parcheggiatore abusivo, che trova un briciolo di dignità ontologica esclusivamente nel fatto che abusiva è l'esistenza tutta di tutti noi viventi mentre un discorso differente andrebbe fatto per le forme di esistenza inanimata (ma guardiamoci dal conferire al presente post una qualche dignità filosofica, chè gli Ereignisse in questione la rifuggono). Quando finalmente mi sono degnato di concedere un pur marginale spazio di replica all'inerme parcheggiatore, le mie incredule orecchie hanno dovuto sentire che per quattro anni mi era stato concesso (sic!) il posto per la mia auto e la mia mordace lingua si è vista costretta a dire che nessuno può concedermi alcunchè perché ad alcuno è dato il dominio sul suolo pubblico. Allorchè il confronto dialettico è proseguito pervenendo ad un'altezza retorica all'inizio insospettata e insospettabile e ciò per merito esclusivo del mio avversario, che ad un certo punto proruppe così: "In piazza Dante tutti sono a rischio di verbale; vabbene, tu non mi paghi e io non ti vengo a chiamare quando vengono i vigili urbani!". Così facendo si guadagnò la seguente risposta da parte mia: "Ma tu chi sei? Forse l'intercessore tra i vigili, l'autorità costituita, e il comune cittadino?". Tralasciamo le scontate riflessioni sociologiche che si potrebbero desumere dalla dichiarazione di generalizzata insicurezza che persiste secondo il nostro amato parcheggiatore, alfiere, a quanto pare, di ciò che da decenni la sociologia definisce la società dell'emergenza, creata dai potenti per tenere sotto scacco la psiche delle masse, e che l'occhio del lettore il cui sguardo non si arresta pigro poco distante dal proprio naso saprà sicuramente vedere in prospettiva come il preambolo di una futura società dell'urgenza (da cosiderarsi come intentio fenomenologicamente intesa verso il cesso) e piuttosto consideriamo che il parcheggiatore non è stato più in grado di riprendersi dalla heideggeriana Heimatlosigkeit ("spaesatezza": lo scrivo soprattutto per quell'indotto teorizzatore della dottrina dell'impossibilità teoretica della coppia) che lo ha vinto al sentire la parola "intercessore", da lui probabilmente connessa etimologicamente, sulla scia dell'opera di Isidoro di Siviglia, con il gruppo lessicale che ruota intorno alla radice "cesso".
Alla fine, tutto è bene quel che finisce bene sebbene tutto sia male quel che inizia: un nuovo è più efficace inter-cesso-re (la sapienza linguistica di chi individua in questa parola la radice "cesso" è qui dimostrata dal fatto che l'individuo cui accenno è riconosciuto, seppure un po' imprecisamente dal punto di vista tecnico, come bidello e quindi cultore del gabinetto) ha convinto il mio avversario a sloggiare, probabilmente facendogli notare che si era messo contro un povero idiota senza arte nè parte. Ma che cosa avrei potuto pretendere di più? Siamo in Italia e mi sono pure dovuto sorbire la seguente degna riflessione del mio salvatore: pagare cinquanta centesimi al parcheggiatore è meno ingiusto di pagare di più per parcheggiare sulle strisce blu; praticamente la messa in forma della giustizia non secondo la nozione di legittimità bensì secondo quella del danno maggiore ai miei personali interessi senza considerare minimamente che remunerare un parcheggiatore abusivo significa beneficare un delinquente nelle sue attività private o nel suo essere parte di una organizzazione criminale più vasta mentre pagare il comune, in linea teorica, equivale a dare il proprio contributo alla comunità. Se con il novello Salomone eravamo di fronte alla giustizia rappresentata dalla bilancia truccata del fruttivendolo sottocasa, in questo caso siamo al cospetto della messa in opera della giustizia posta in effigie nella bilancia del fruttivendolo ambulante che dispone la scadente mercanzia sulla propria ape motorizzata.
Ma la tensione morale del mio post non ha ancora raggiunto il suo culmine. Che dire dei grandi manovratori? Che cosa conferisce ai parcheggiatori abusivi il potere di imporre l'estorsione a tutti noi, potere prima di tutto morale e solo in secondo luogo pratico? In altri termini, quale pastoia morale impedisce al parcheggiatore di uscire fuori dal prorio recinto di ignoranza e cecità e giungere alla chiara e distinta comprensione di chiedere ogni giorno l'elemosina ad ognuno di noi, visto che esemplari come lui non esplicano alcuna funzione sociale se non quella di renderci chiaro quanto noi esseri normali siamo superiori a certo fondo di bottiglia? La responsabilità di tutto è dei docenti che danno la paghetta mensile o settimanale a quei brutti ceffi. L'ibridazione antropologica tra le due sottospecie è del resto evidente nell'avvicinamento del linguaggio e del pensiero degli uni a quelli degli altri; ma forse gli uni non sono mai stati distinti dagli altri e certi rudimenti biologici di alcuni docenti, come consistenti mazzi di chiavi e marsupi, si possono spiegare solo quale eredità, per l'appunto biologica, di tempi apparentemente trascorsi.
In conclusione (era ora, avrà sospirato il paziente lettore, che ormai boccheggiava e/o sbadigliava), errai, candido Dell'Ombra, assai gran tempo e di gran lunga errai, per parafrasare la palinodia dell'amato e venerato Leopardi, che avrebbe ridicolizzato magistralmente i vizi e i costumi presenti dei siciliani e degli italiani tutti come fece con quelli dei suoi contemporanei, comunque migliori dei nostri, se non altro perché non sono più. Sì, errai, ma non perché dimostratomi ingiustamente irriverente nei confronti dell'in-(v)erme, considerato che non gli ho mica ricordato da quale utero era stato partorito e che nonostante ne abbia parlato con te, seppure in sua presenza, con intento neutralmente definitorio, come di un cane cui infliggere bastonate non l'ho nemmeno toccato, essendo io non ancora versato nella regale arte della lotta col bastone, piuttosto perché quel giorno la mia eloquenza è venuta meno lasciando che mi impappinassi in più momenti. Perché capiscano anche i tonti: nella presente era geologico-metafisica dell'impossibilità della morale, di ogni morale, e del prevalere della tecnica, il mio unico rammarico è di aver parzialmente fallito al livello della tecnica. Ad ogni modo, da martedì avrò sempre da temere qualche ritorsione e in pochi difenderanno colui che, invece di essere considerato a buon diritto un impavido eroe sprezzante del pericolo (di quel pericolo sempre presente quale oggetto del pensiero che solo si può fregiare degnamente di questo nome, per dirla con echi nietzscheani), nel migliore dei casi verrà considerato un povero idiota, nel peggiore un insopportabile distruttore delle tradizioni più sacre, in quello pessimo tutte e due le cose precedenti più il fatto di essere un rompiballe da circo. Pertanto il mio motto, d'ora in poi, dovrà essere prudentemente: cave canem.