martedì 30 settembre 2008

Brevi considerazioni sulla miserabilità del siciliano

Nel titolo del post, "siciliano" potrebbe essere sostituito con "italiano" o "umano" in parecchie delle situazioni che mi accingo diligentemente a descrivere, se non altro perchè le tre parole prese in considerazione rimano alla stessa maniera e quale scellerato lettore oserà mettere in dubbio che il suono sia cosa marginale? Per cominciare cerco di prevenire eventuali critiche chiarendo che non voglio cadere in volgari generalizzazioni ma solo formulare dei giudizi universali e necessari e che non sottovaluto affatto l'importanza del popolo siciliano nella schiera di tutti quelli esistenti ma che piuttosto riesco a vedere in esso un ottimo specchio di tutte le principali virtù dell'uomo, capace proprio grazie al suo stupefacente effetto riflettente di rendere ancora più notevoli queste qualità.
Andando al sodo, come si fa a non rendersi conto di quanto l'uomo sia solo nella nostra società? Qualcuno, sicuramente tra i più stolti dei miei lettori, obietterà che presso di noi sopravvive ancora un qualche residuo di organicità sociale in grado di preservare gli individui dall'atomizzazione sociale attraverso gli istituti della famiglia, della Chiesa, della comunità paesana, ma come si fa a non vedere che proprio all'interno di esse l'individuo non è nulla? Coloro che all'interno di una famiglia aspirano a una qualche forma di libertà che non consista nel mero fregare tutti coloro che non appartengano alla propria famiglia vengono tacciati talvolta di stupidità, talatra di malvagità ed egoismo. Tutti accorrono per sopprimere il moto rivoltoso del povero infelice che reclama autonomia e dignità, con ancora maggiore ferocia se si tratta di una emancipazione spirituale e culturale. Anzi è bene sottolineare che proprio in questi casi, solo apparentemente meno drammatici, l'angusta perfidia delle donne di famiglia si avventa sul malcapitato cercando di farlo vergognare della propria presunta disumanità con appelli ai sacri disvalori dell'affetto materno, della pietà religiosa e della comune appartenenza ad un branco.
Dir male della Chiesa sarebbe come sparare sulla croce rossa e del resto confido nei già soddisfacenti livelli di empietà dei lettori, motivo per il quale non aggiungo altro. Della comunità paesana si può dire solo il peggio possibile: sei una brava persona solo se prevarichi oppure se in alternativa subisci senza clamore, altrimenti metti in imbarazzo gli imbelli tutti gli altri, che non hanno alcuna intenzione di sentirsi mediocri per il solo fatto di subire senza colpo ferire. Naturalmente tutto ciò che conta è adeguarsi al sentire comune, che è un sentire di pancia, talvolta anche di sfintere. A parole è un trionfo di solidarietà ma a conti fatti ti si offre solo omertà, vigliaccheria e quella spregevole forma di interessamento, la sola di cui i più sono capaci, che corrisponde alla curiosità pettegola quando non anche maldicente. Da una simile generalizzata condotta non può che nascere una universale reciproca diffidenza. La seguente mia teoria ha passato il vaglio dell'esame empirico: nessun uomo è più diffidente del siciliano, che, in fondo e in ammirevole spregio ai valori del legame madre-figlio, sa di non doversi fidare prima di tutto di colei che più di ogni altro è responsabile della sventura (perchè che si tratti di una svenura è chiaro a molti siciliani) dell'esser nati. Purtroppo è in uso una disdicevole forma di ipocrisia che induce a fingersi amici di tutti, ma a ben guardare si tratta solo di una maschera di difesa buona per tendere le migliori insidie al prossimo. Inoltre, quando il siciliano è di fronte a ciò che può essere considerato meno distante da un'amicizia fa valere un diritto cui non vuole mai rinunciare, ossia quello di pretendere di più dall'amico proprio in quanto amico, senza con questo, naturalmente, doversi sentire in dovere di concedere qualcosa in cambio. Ogni concessione è il preludio di una sconfitta perchè mostra una crepa nello scudo.
Quanto ai pii sentimenti religiosi del siciliano si può dire un gran bene: quasi nessuno crede in niente e ancor meno in Cristo, cui il siciliano è inimico in ogni sua espressione. Anche le forme più pagane di devozione religiosa sono solo l'evidente puntello alle vanità di mafiosetti del paese (anche quando si tratta di grandi città come Catania si tratta di centri con una mentalità e un'angustia morale tipica di un villaggio) e non hanno nulla a che fare con la tolleranza che si può attribuire al politeismo. Chi non ha mai assistito alle contese sul maggior valore di un santo rispetto ad un altro? Faccenducole per balordi di paese ma molto interessanti antropologicamente. Da tutto questo deriva comunque qualcosa che quasi induce a spezzare una lancia in favore dei siciliani: essi sembrano per un attimo pervenire ad una comprensione tragica della vita tipica di chi non crede a niente ma poi subito ricadono nella più ferina lotta per l'esitenza che esige che non si sprechino energie intellettuali per potere porre mano a faccende più concrete.
Ogni faccenda, seria o faceta che sia, viene affrontata con energia sì, quando se ne può ricavare un tornaconto, ma si è sempre alieni da un pur vago senso del dovere. Talvolta questo elemento viene nefastamente tenuto nascosto da ferme dichiarazioni in senso contrario e soprattutto dall'ostentazione di un forte senso dell'onore, che tuttavia, sarà ben chiaro a tutti, è ben altra cosa e cosa ben meno seria del senso del dovere.
Un breve cenno lo merita pure la leggendaria intelligenza dell'abitante dell'isola: nessuno può prendersi gioco di lui e soprattutto quando si trova al di là dello Stretto cerca di fregare il prossimo, perchè si sa, gli altri sono tutti ingenui. Ebbene sì, il siciliano è furbo: vende il proprio voto al primo balordo che glielo chiede in cambio di un pacco di pasta o peggio ancora in cambio di promesse impossibili da mantenere sull'assunzione del figlio, che otterrà sicuramente un posto consono alle proprie notevoli capacità. Perchè è noto, il figlio del siciliano è sempre intelligente, migliore degli altri figli anche quando è un aborto mancato e questo non fa che testimoniare quanto per il siciliano sia una cosa fondamentale la questione della potenza, della propria potenza espressa nel concepimento.
Infine, prima del pezzo forte che ognuno dei miei lettori sta attendendo, per ora non mi viene in mente altro da criticare dell'odiosa convinzione che ha il valore di un equivoco secondo cui si può vantare un sentimento solo se lo si esibisce senza verecondia alcuna, si tratti di gioia, amore, odio, disprezzo. Se un ragazzo crede di amare una ragazza deve cingerle il collo come si cinge uno scatolo di vecchi oggetti da portare in garage perchè tutti devono capire che è proprietà privata e la diretta interessata deve aver chiaro di essere un oggetto. Se si piange un morto (era tanto che in questo blog non vi si faceva cenno) si deve strillare anche se dopo due giorni si va alla festa del paese. Soprassediamo sulle espressioni di disprezzo, le quali riempiono tutto il profilo antropologico del siciliano.
Passiamo a cose più serie: la donna siciliana. E' un vero spettacolo assistere ad un litigio tra due donne siciliane. Tutto concorre affinchè esso assuma i contorni dell'ancestralità: le urla stridule quando non gracchianti, la vivace gestualità che talvolta culmina nello straparsi i capelli, l'irrefrenabile trivialità delle battute che si possono vedere scambiare, il crescendo wagneriano che vede accentuarsi la pugnacità delle contendenti fino al fatale frangente in cui si finge di aver sentito dire all'avversaria qualcosa che possa mettere in dubbio la propria virtù, il che, immancabilmente, conduce a tirare in ballo i mariti minacciandone la rappresaglia. Nessuna ritualizzazione del conflitto degli esemplari in oggetto può aver luogo perchè si tratta di animali privi di ogni inibizione e in totale balia di meccanismi scatenanti innati tesi alla distruzione morale, prima che fisica del nemico.
Tuttavia la donna siciliana è uno spettacolo anche al di fuori dei duelli con proprie pari e raggiunge dei vertici sublimi nelle seguenti circostanze: quando incede sicura tra i banconi della pescheria o del mercato chiedendo con fare da minaccia quale è il prezzo di un prodotto e dissimulando la propria volontà di acquistarlo all'unico e perfido scopo di ottenere uno sconto. E come trascurare ancora una volta sempre il suo incedere nelle giornate più calde, quando sfodera vestitini svolazzanti che purtroppo non lasciano molto all'immaginazione di chi ha in odio forme troppo ridondanti? Quell'incedere mai a gambe chiuse perchè il peso del corpo non è adeguatamente sostenuto dalla forza dei propri arti inferiori, che già la ragazzine possono sfoggiare quando ancora non sono troppo grasse (fino a due giorni prima del matrimonio o al massimo fino alla prima gravidanza) in sapiente preparazione alla propria vita da adulte. E come si può tollerare quella mancanza di gentilezza e di grazia sin dall'età adolescenziale, quella mancanza di disponibilità a meno che non si voglia qualcosa in cambio, quell'astuta simulazione dell'ottusità per poter convincere un idiota a servirle e a riverirle? Ma ciò che più di ogni altra cosa ferisce gli animi sensibili come me (che dico? come noi) è l'abbrutimento dell'espressione del volto anche in quei rari casi in cui si sarebbe in presenza di lineamenti non privi di una certa grazia, l'ostentazione di una presunta bellezza nell'elemento estetico più a buon mercato (nel senso che le siciliane, pingui per natura, fanno presto ad avere se solo si lasciano andare), ossia il seno grosso e grasso. Non deve salvarsi dalla ferocia di una critica seria neanche quel maledetto modo di fare che in talune ragazze, soprattutto i virgulti più teneri, vorrebbe presentarsi come assai affettuoso ma che si risolve in un mellifluo, eccessivo quando non anche parzialmente falso avvicinamento di una forma di vita che rimane però ineluttabilemente estranea.
Sperando che la lunga e avvincente lettura non abbia fatto registrare vittime sul campo o fraintendimenti di un qualche tipo (quando il lettore avrà dei dubbi su ciò che volevo dire pensi all'ipotesi peggiore e confidi così di aver capito) mi auguro che essa possa non solo convincervi del mio carattere spregevole ma soprattutto indurvi a dire: "quel tale ha fatto un'orrenda descrizione ma appunto perciò quanto vera!".

domenica 21 settembre 2008

Sul linguaggio

Si è a lungo discusso nella storia della cultura sul rapporto tra linguaggio e pensiero e talvolta assai fruttuosamente. Proviamo ora noi a dipanare l'intrico costituito da parola e concetto in maniera meno efficace. E' bene chiarirlo sin dall'inizio, si tratta di un groviglio in movimento, come tutto ciò che può vantare i caratteri di ciò che è vivo: l'attrito tra il termine e l'idea, tra il verbo e l'azione, la sostanza e il soggetto genera un cono di luce sulla faccenda del linguaggio che dà il pensiero e che al contempo da esso viene reso sensato. Un pensiero muto non viene dato e dei segni su un oggetto o una successione di suoni nell'aria non sono nulla. E' difficile stabilire che cosa possa vantare il primato su che cos'altro ma forse questo è affare per monoteisti che prestano il culto di fronte alle cause isolate e alle catene causali ad una sola direzione, a noi interessa maggiormente indicare l'intrico per sè. A questo scopo quale altra via si presenta come più sicura se non quella additata dalle fatiche della traduzione. E sì, il linguaggio umano mostra la propria vitalità nella molteplicità delle sue manifestazioni: tante lingue quanto e più sono i popoli ma sicuramente tante quanti sono i sentieri che conducono ai pensieri. Cercherò di diradare la goffa oscurità delle mie parole: come sa chi diligentemente cerca di rendere in una lingua diversa dall'originale un discorso, scritto o parlato che sia, assai di rado vi è corrispndenza perfetta tra un termine di una lingua e quello di un'altra. Permane spesso invece un residuo di intraducibilità, un esubero di pensiero e di idea. A ciò si aggiunga che anche quando, nell'essenziale, si è pervenuto nel corso dell'evoluzione del significato di una parola ad una sovrapposizione con lo spettro semantico di una parola di un'altra lingua ai più attenti non può sfuggire la loro duplice e differente storia da cui hanno ricevuto la forgia; storia che spesso, a dispetto di un uso volgare e sterilizzante del vocabolo, si ostina a sopravvivere nell'essenza stessa del suo significato, con buona pace dei dizionari.
Si presenta così come ancora più utile e opportuno per chi voglia conoscere meglio l'oggetto, con cui non si intende qui la superficie di ciò che ci si illude di vedere bensì il frutto nascosto e proibito che sta sotto quell'involucro, la fatica della traduzione, il laborioso confronto tra le parole che sembrerebbero indicare lo stesso concetto-cosa. Solo alla luce di questa continua messa a fuoco che si avvale anche dei contesti in cui sono collocate le parole ci si può avvicinare allo scopo non senza allontanarvisi svariate volte prima di un più deciso avvicinamento. Nel passaggio e distacco da una lingua all'altra, quando non ci si limita più a pensare in una sola, ci si può come staccare dallo strumento linguistico per corteggiare l'oggetto stesso. Le parole, nel loro avvicendarsi, si impegnano a circuire il concetto in un corteggiamento che sfinisce e che, come natura vuole, nella maggioranza dei casi si conclude apparentemente con un nulla di fatto.
Ma il lavoro della traduzione non è meno utile nel tentativo di comprendere il fatto che così come una lingua la si capice tutta intera e per così dire tutta in una volta e non per somma di elementi (si provi a fare l'esperimento anche cercando di ascoltare e quindi capire le parole di una frase detta nella propria lingua e si vedrà quanto sarà faticoso affidarsi per la comprensione di essa ad un'attenzione diretta alle singole parole e non alla globalità di quanto viene detto) alla stessa maniera si conosce tutta intera e come per intuizione immediata (la quale non per questo può fare a meno di un lungo percorso preliminare) la realtà che con la lingua si vuole esprimere: ogni oggetto è in relazione con gli altri e solo per l'imperfezione del mezzo , il nostro intelletto, sembra sfuggire a questa logica di relazione, o meglio correlazione. Non è possibile tradurre una parola di un testo se manca la frase; si dirà di più, il testo rimane muto senza contesto: quella parola è semplicemente priva di senso. Così come, del resto, l'oggetto e il concetto di esso isolati nella loro individualità non cantano la ricchezza della realtà e lasciano sostanzialmente inappagato l'intelletto che li pensa.