lunedì 10 marzo 2008

De profundis

Esordisco con un tema quanto mai filosofico, pur non trattandolo in modo profondamente filosofico per non venir meno alle dichiarazioni di propositi fatte in via di presentazione. Il tema in questione, la morte , esprime nel più alto grado la potenza del negativo e pertanto andrebbe considerato per sè, ma alla considerazione dei nostri simili assai spesso, ahinoi, tale potenza sfugge. Dove ricercarne le cause? Naturalmente soprattutto nella religione cristiana (in questo caso le differenze tra le varie confessioni che vedono in Cristo il Signore del mondo è a mio avviso trascurabile), che nel proporre un'illusione fa un torto alla realtà della morte che vuole mascherare. Eppure, proprio al cospetto di un nostro simile che spira la dottrina cristiana dovrebbe cedere alla luce non tanto della ragione, ma del più comune buon senso, cosa peraltro assai rara tra gli uomini. Si pensi al rito funebre cristiano: i richiami alla vita eterna di cui può godere il fratello che ci ha lasciati sono continui; la speranza nella sua beatitudine celeste viene dichiarata fino ad essere resa certezza, tuttavia le persone che hanno amato il defunto sono giustamente disperate: nella disumanità della negazione delle ragioni del dolore si estingue l'umanità di un'illusione di immortalità che dovrebbe lenire quell'irrimediabile dolore. Quanto è atroce la religione che proclama di offrire speranza! E quale danno procura al pensiero, cui viene sottratto un oggetto come la morte! Essa non può essere meditata nella sua terribile naturalità, non può farsi pensiero ed è invece condannata a rimanere straziante sentimento per chi perde una persona cara, angosciante sensazione per chi si appresta a non vedere più la luce del sole.
Ma le ragioni di un oblio della potenza del negativo non sono, a mio parere, tutte da attribuire al frequentemente nefasto influsso del cristianesimo sulla nostra cultura (naturalmente il suo influsso non è sempre così negativo): la stessa natura gioca in favore di un suo oblio. E' naturale che l'uomo tenda a sfuggire ai limiti che gli sono imposti ed è naturale che cerchi di sottrarsi al difficile compito che la consapevolezza di quel limite esige da lui: ossia la ricerca di un significato autentico per la propria esistenza, di un senso che non sia offerto dal fluire quotidiano del tempo che stordisce l'intelletto degli stolti e dei savi. Il non senso avanza le sue pretese a dispetto di religioni e filosofie. Dicevamo delle responsabilità da attribuire alla natura dell'uomo in merito, ma quando la natura degenererà cosa dire? Mi permetto di sollecitare la vostra riflessione ricorrendo alle esperienze che ho potuto fare in occasione degli ultimi funerali cui ho preso parte: il valore della morte è ormai trascurato non solo a livello di profonda riflessione ma anche nell'esperienza per così dire superficiale che se ne può fare. Ho partecipato a due cortei funebri che attraversavano brevemente le vie di piccoli centri urbani e in entrambi i casi, non solo i conducenti delle auto che attendevano che il corteo finisse di attraversare una strada non spegnevano il motore, ma, quasi a voler spronare le persone a fare in fretta acceleravano come se fossero disposti sulla griglia di partenza di un gran premio. E guai a muovere rimproveri nei confronti di simili pie e splendide intelligenze, se ne avevano certe risposte! Ed ancora, è così difficile fare a meno delle conversazioni al telefonino durante un corteo funebre o mentre si tumula un morto? Spostamento e comunicazione avvinghiano l'uomo e ne fanno un fruitore accanito e per ciò stesso qualcosa meno di un uomo, qualcosa di più di un canarino.
Spero che le mie ultime considerazioni non vengano assunte come moralistiche e del resto se così fosse presto qualche post di questo blog potrebbe gettare una luce sinistra sulla moralisticità (ebbene sì, in questo blog si possono trovare anche le maleparole) del sottoscritto. Inoltre, in generale, è mio auspicio che tutte queste mie povere riflessioni trovino un'accoglienza generosa tra i miei lettori, che so fedeli e soprattutto numerosi, sebbene probabilmente non abbiamo mantenuto ciò che avevano promesso.

11 commenti:

antonio ha detto...

Noto con piacere che sono oggetto di citazione ("a suo modo"), benchè di citazione dalle opere di cabaret si tratti. Spero di essermi espresso in maniera adeguata sulla disumanità del cristianesimo che, se preso alla lettera, non può che esigere gioia da colui che vede una persona cara finire sottoterra per poter ottenere la beatitudine celeste. Ma sull'argomento credo che scriverò una piccola appendice forse chiarificatoria.

Cateno ha detto...

Le morti non mi piacciono... In queste situazioni di presuntà nudità emotiva, si manifesta l'aspetto misero, brutto e peggiore della mente umana; e non avviene per via di qualche accanimento, ma semplicemente a casua dell'essere sciolti ed al contempo rigidamente vincolati alle formalità morali. Ai funerali, alle veglie mortuali, ai compianti, si assiste ad uno degli spettacoli più comici cui ci è dato in sorte partecipare: lo schiavo che sotto la parvenza della libertà gode ad osservare pedissequamente riti e moralismi.
Ogni volta che è morta una persona a me cara (e per fortuna è successo raramente) ho preferito vivere l'evento nel silenzio e nella solitudine; ossia nella libertà.

antonio ha detto...

Non posso che ringraziare te, davide, ed essere d'accordo con te, Cateno, anche se credo che un accanimento di qualche tipo, tra automobilisti e conversatori di telefonia mobile, indipendentemente dai funerali, esista e abbia una sua importanza anche in quelle situazioni. Ma per essere più chiaro: condivido fortemente la tua idea secondo cui i formalismi e i rituali dei funerali non vanno d'accordo con un'espressione genuina del dolore. Tanto più che dalle nostre parti vanno ai funerali anche coloro cui non importa proprio niente del defunto, ma si sa, il popolo siciliano è atrocemente ipocrita.

Giuseppe Di Mauro ha detto...

Ciao mio caro amico e collega di filosofia. Sono Giuseppe, ti ricordi? C'ha presentati Giorgia. Leggendo il tuo "funesto" articolo, nella parte inierente il cristinesimo:Dove ricercarne le cause? Naturalmente soprattutto nella religione cristiana (...), che nel proporre un'illusione fa un torto alla realtà della morte che vuole mascherare. Eppure, proprio al cospetto di un nostro simile che spira la dottrina cristiana dovrebbe cedere alla luce non tanto della ragione, ma del più comune buon senso, cosa peraltro assai rara tra gli uomini. Mi veniva in mente l'articolo letto oggi su Avvenire: VERSO PASQUA. Ecco l’unicità del cristianesimo tra le fedi: dipende da un fatto e rovescia il "senso comune". Le riflessioni del cardinale Biffi.

Mi permetto di copiartelo, poi, se vuoi, cancellalo.

Vince chi perde, la logica della Croce
DI GIACOMO BIFFI
L a rivincita del Crocifisso. L’e­spressione allude all’evoluzio­ne dello stato d’animo degli a­postoli e degli altri amici di Gesù nel corso degli accadimenti che ci han­no salvato. Essi nella morte del Si­gnore hanno visto una catastrofe: u­na sconfitta totale e senza rimedio per l’insegnamento, l’azione, il pre­stigio del loro Maestro; e una scon­fitta totale e senza rimedio anche per loro stessi. In lui avevano riposto ogni loro speranza; per lui avevano abbandonato la casa, il lavoro, le normali relazioni sociali; su di lui a­vevano puntato la loro unica vita: a­vevano lasciato tutto (cf. Mc 10,28).
E avevano perso tutto. Ed ecco che arriva quell’inaspettato e incredibile terzo giorno, con il sepolcro scoper­chiato e vuoto, con il succedersi in­calzante delle manifestazioni del Re­divivo, con la ricomparsa (in uno splendore nuovo) del loro antico af­fascinatore. Quel terzo giorno è stato naturalmente percepito come il «giorno della rivincita»: una rivincita davanti al «clan» e a quei conoscenti che avevano sempre guardato con scetticismo alla loro infatuazione e forse già avevano iniziato a deriderli dopo la fine ingloriosa dell’esperien­za intrapresa; una rivincita davanti alle autorità del popolo d’Israele; u­na rivincita davanti all’umanità inte­ra. La sera del terzo giorno in mezzo a quel gruppo ormai disilluso e sbandato comincia a serpeggiare il sollievo e la sensazione che la bella avventura, con i suoi attori di sem­pre, sta per ricominciare da capo: davvero il Signore è risorto ed è ap­parso a Simone! (Lc 24,34). Era una rivincita inaspettata. Tutto ciò è plausibile e possiede una sua verità.
Se però l’attenzione si sposta dal dramma come era psicologicamen­te vissuto da chi era immerso nelle oscure vicissitudini terrene al dise­gno eterno del Padre, allora (a un livello di conoscenza più alto, più chiaro, più comprensivo) ci si rende conto che bisogna parlare, per tutto quel che è avvenu­to, di totale e assoluta «vitto­ria ». Io ho vinto, aveva subi­to affermato Gesù poco pri­ma di essere arrestato, al principio del suo percorso di umiliazione, di sofferenza, di morte, di risurrezione, di gloria (Gv 16,33: «Io ho vinto il mondo»). Del resto, egli ci aveva già informato che perfino la sua croci­fissione sarebbe stata una vittoria, anzi una «vittoria cosmica» e una conquista dei cuori: «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire (Gv 12,32­33). La Chiesa, con l’intelligenza do­natale dalla Pentecoste, ben presto capisce che tutto quanto si è svolto a Gerusalemme nelle ore più buie del­la storia è intrinsecamente parte del vittorioso progetto di Dio. (...) Qui si impongono alcune considerazioni generali sull’avvenimento pasquale come ciò che è fondante e costituti­vo della nostra essenziale autenticità di credenti in Cristo. Quando all’in­domani della Pentecoste gli apostoli partono per annunciare il Vangelo a tutte le genti, su comando del loro Signore e Maestro, non hanno altra religione che quella ebraica, non ri­conoscono altro Dio che il Dio di A­bramo, di Mosè e di Davide, non possiedono altro libro sacro (alme­no inizialmente) che la Bibbia degli israeliti: tutti elementi teologici e cultuali che non li distinguevano dal resto della popolazione di Gerusa­lemme e della Giudea. Che cosa al­lora era proprio, esclusivo, caratte­rizzante del Vangelo e della nuova realtà della Chiesa? Era il convinci­mento e l’annuncio pubblico che Gesù di Nazaret, il Crocifisso del Golgota, era risorto, era adesso vivo, era Signore. Questo è ciò che nel cri­stianesimo è ancora oggi proprio, e­sclusivo, caratterizzante. «Occorre a questo punto persuadersi che il cri­stianesimo fin dal suo contenuto primordiale è qualcosa di unico, di decisivo, di imparagonabile. Prima ancora che una religione, una mora­le, un culto, una filosofia, è un avve­nimento: l’avvenimento della risur- rezione di Gesù di Nazaret che si fa principio del rinnovamento degli uomini e delle cose. Perciò è intra­montabile: le dottrine nascono, fan­no fortuna, incantano per decenni e magari per secoli, poi decadono e muoiono. Il fatto cristiano resta, pro­prio perché è un fatto; e resta indi­pendentemente dall’accoglienza e dal numero delle adesioni che rice­ve. Tutte le religioni – oggi si sente dire sempre più spesso – hanno un loro valore che è giusto riconoscere.
E si può anche ammetterlo, purché non ci si dimentichi che la realtà cri­stiana in questo discorso non c’en­tra. Il cristianesimo, primariamente e per sé, non può essere ridotto a un sistema di convincimenti, di precet­ti, di riti che interpreta e regola i rap­porti tra le creature e il Creatore. Vale a dire, per quanto la frase possa ap­parire paradossale, primariamente e per sé, non può essere ridotto a 'una religione': collocarlo tra le religioni (anche soltanto per ragioni di siste­mazione e di metodo, o per la buona intenzione di favorire il dialogo in­terreligioso), se non si chiarisce l’in­trinseca ambiguità del collegamento o quanto meno il suo significato sol­tanto analogico, vuol dire travisarlo e precludersi ogni sua autentica comprensione.
«La resurrezione del terzo giorno può essere letta come una rivincita dopo la sconfitta; in realtà il trionfo era già nel Venerdì santo»

Ah mi faccio un pò di pubblicità: http://giuseppedimauro.splinder.com/

Cateno ha detto...

Eh, sì... Proprio la rivincita... Di questo si tratta: un modo come un altro per vincere definitivamente.

Giuseppe Di Mauro ha detto...

Ciao Cateno, sicuramente ci siamo già visti visto che frequentiamo la stessa facoltà. Avremo sicuramente amici in comune. Cosa intendi per "un modo come un altro per vincere definitivamente"? E'il Cristianesimo a promettere la vittoria sulla morte, altri culti o filosofie in giro sterilizzano il problema naturalizzandolo. Si tratta di vincere la morte, credo che per un uomo sia una proposta allettante; non credi?

antonio ha detto...

Giuseppe, grazie del tuo contributo, ma rimango dell'avviso che il paradosso offerto dal cristianesimo, anche quando, come nel caso da te preso in considerazione, sia consapevolmente volto a sovvertire il buon senso, rimanga della consistenza dell'illusione e che pertanto sia più pericoloso del male che intende curare. Ci confronteremo ancora su analoghi temi.

Giuseppe Di Mauro ha detto...

D'accordo in merito al confronto. Nel mentre anticipo ulteriori possibili sviluppi. La ragione è soltanto presa d'atto di dati verificabili? Andrea Riccardi che si è fidato del Vangelo senza avere prima una prova provata e, così facendo, ha iniziato un movimento d'amore internazionale cosa deve pensare che sia il cristianesimo? Deve in toto rigettarlo come sterile se non addirittura pericolosa illusione? (cfr http://giuseppedimauro.splinder.com/). Ciao, alla prossima.

antonio ha detto...

Io ritengo che la ragione non sia una presa d'atto di dati verificabili bensì un tentativo quasi mai certo di confrontarsi con dei dati. La scio la verificazione ai positivisti, che, a loro modo, hanno una fede. inoltre penso che colui che affida la propria vita e condotta morale a un'idea o credenza non lo faccia mai totalmente alla cieca e che quindi non si possa mai parlare di fede assoluta. Chi compie una scelta religiosa lo fa, amio avviso, perchè crede di aver trovate delle tracce di verità, che in qualche modo costituiscono una prova ragionevole. Il punto è il seguente: quando si tratta di prove ragionevoli e quando di tracce che sviano verso un'illusione? Infine, anche quando siamo di fronte ad un'illusione, non penso che si tratti sempre di qualche cosa di negativo: anche da esse può nascere qualcosa di buono.

Giuseppe Di Mauro ha detto...

"Io ritengo che la ragione non sia una presa d'atto di dati verificabili bensì un tentativo quasi mai certo di confrontarsi con dei dati." Ma così getti la spugna troppo presto! Donde questo scetticismo? Per te cos'è la verità? Quali requisiti deve avere per distiguersi dall'illusione, che vedi ovunque?

antonio ha detto...

Non fraintendermi! il fatto che quel tentativo non costituisca qualcosa di certo non significa che sia privo di valore: può trattarsi anche di qualcosa di molto interessante. Il punto è che, a mio avviso, l'uomo non dispone di un apparato conoscitivo in grado di farlo accedere nella contrada delle verità odella Verità se preferisci. Poi, se mi chiedi pilatescamente cosa è la verità, muovendo da questi presupposti teoretici, come faccio a risponderti? Posso solo dire che ritengo possibile solo qualcosa di analogo ad un'approssimazione conoscitiva, che tra i suoi requisiti dovrebbe possedere almeno quello della coerenza logica, che non è da confondersi con la negazione di un carattere paradossale. Ad ogni modo non penso di essere scettico: non nego mica ogni verità! Al massimo uso malamente lo scetticismo come principio metodico ma non come approdo. Un'ultima cosa: la mia pur scarsa esperienza mi dice che tra lo scettico e l'uomo di fede c'è una certa parentela. D'altronde, a rigore, per il cristiano non c'è verità che non venga da Dio e pertanto, in qualche maniera, non crede di poter conoscere niente in maniera autonoma, un po' come lo scettico. Mi scuso, ma nel caso tu replicassi, io non potrei risponderti prima di una settimana in quanto debbo partire. Abbi pazienza!